Categoria: Articoli

  • Bruno Asioli, maestro


    Voglio ripubblicare un mio scritto del 2010, un ricordo di Bruno Asioli, che fu il mio maestro elementare dal 1965 al 1970 a Forlì. Vi apparirà in filigrana gran parte di ciò che ora la prosa neoromantica della pedagogia ufficiale ci prospetta come “il nuovo”, ma che nuovo non è, se una persona di grande intelligenza, semplicità e sensibilità lavorava in quel modo sessant’anni fa. Ci sono i compiti di realtà, la maieutica, la gioia, l’osservazione naturalistica, il learning by doing, perfino un poco di flipped classroom e, udite, un inedito flipped film. Va sottolineato che nelle aule accanto alla mia si muoveva un corpo docente che pareva uscito dal libro Cuore e che usava metodi sideralmente diversi da quelli del mio maestro. Già, perché una scuola valida è possibile, si può fare sempre, ovunque, senza paroloni, senza amorosi affetti, senza trucchi nominalistici, e perfino senza tecnologie e robottini. 

    Buona lettura. 


    L’odore della candeggina sulle mani è il primo ricordo del mio maestro elementare. Perché lui riparava da sé la sua vecchia auto, cercando poi di sbiancarsi le mani annerite dall’olio. Apparivano mani di meccanico, le sue, anche se da giovane aveva amato e suonato il violino.

    All’inizio della prima ci invitò a tracciare scarabocchi su fogli di carta vergatina grigiastra che teneva in un armadietto. A chi tentava di creare forme precise e regolari diceva di preoccuparsi, piuttosto, di avere un bel gesto, libero, ampio, spontaneo. C’era una specie di gioia in quell’invito. Era l’inizio di ottobre del 1965.

    18 grammi

    Schizzare un ricordo del mio maestro, di quei cinque anni così lontani mi sembra un problema impossibile. “Un grande problema si risolve dividendolo in tanti piccoli problemi”, così ci ripeteva sempre. Un giorno ci assegnò il compito di far acquistare dai genitori alcuni pesi da bilancia, dieci grammi, cinque, due e un grammo. Li conservo ancora. Ricordo anche un altro acquisto che ci sollecitò: una cartina dell’Italia. Tempo dopo qualcuno domandò: “Maestro, quand’è che adoperiamo la carta geografica?” Lui, con un sorriso solare: “Non serve a noi qui, servirà a voi a casa, quando vorrete sapere dov’è una città o un luogo.” Forse basterebbe questo a descrivere che idea avesse della scuola, ed era che la scuola era parte della vita. Era parte del mondo. E il mondo eravamo noi.

    Il mondo si poteva toccare. I piccoli pesi furono la sua lezione sulle unità di misura, assieme all’acquisto di un metro di legno, di quelli gialli che si ripiegano in stecche da dieci centimetri. Il mondo è tuo. Conoscilo. Toccalo. Ci portò dei girini dentro un vaso di vetro. Li tenemmo in classe a lungo; non tutti sopravvissero, ma una mattina trovammo l’ultimo superstite che saltellava sulla cattedra, era un bel rospetto nero. Lo portammo subito in giardino dove avrebbe potuto continuare a vivere. Un giorno anche noi saremmo usciti da lì e saremmo andati a vivere.

    Durante una lezione un bambino disse “Maestro, la mia cartella non si chiude più, la fibbia non tiene.” Il maestro si interruppe immediatamente, si fece consegnare la cartella rotta e un’altra funzionante, poi ci mostrò la linguetta guasta confrontandola con l’altra che ancora scattava. Ci chiese di immaginare che cosa la spingesse allo scatto. Dopo diversi tentativi la risposta arrivò: una molla. “Certo, sì, e allora? Cosa potremmo fare? Potremmo sostituire la molla e la cartella si potrebbe ancora utilizzare”. Questa attenzione zen al momento presente, al tutto contenuto nell’istante, questo era l’alfa e l’omega della sua incrollabile fiducia nell’intelletto umano.

    Di tanto in tanto ci portava nel salone seminterrato per vedere un film. In quegli anni si dovevano noleggiare pellicole in sedici millimetri nelle loro grandi scatole di latta e proiettarle con una vecchia macchina da cinema. Un giorno il maestro incontrò molte difficoltà nella proiezione, e dopo molti sforzi tutto quel che riuscì a fare fu di proiettare il film capovolto. Noi eravamo perplessi e scoraggiati. Lui, solare e sorridente come sempre, lasciò andare avanti la proiezione affermando che così era ancora meglio: era una occasione fortunata per esercitarci a capire comunque le immagini e la trama, nonostante fosse tutto capovolto. Fu quella, forse, la sua più bella lezione.

    Da “I maestri del dolore, Pendragon 2011

  • Disagio giovanile o crisi di una civiltà?

    Qui puoi visualizzare o scaricare le slide

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    Bibliografia Minima sul disagio giovanile

    Angelini C. (curatore).  (1972). Apocalisse, Einaudi

    Baroni, M., Nanni, F., (1989). Crescere con il rock, CLUEB

    Battacchi, MW., (2006). Per una psicologia critica dello sviluppo, Psicologia Contemporanea n.197 sett-ott 2006

    BAUMAN, Z., (2007). Amore liquido, Laterza

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    Benasayag, M., Schmit, G., (2004). L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli

    BOWLBY, J., (1980). Attaccamento e perdita, Vol. 3, Boringhieri

    Byung-chul Han, (2021). La società senza dolore, Einaudi

    CENSIS, (2011). La crescente sregolazione delle pulsioni, 6/6/2011, https://www.censis.it/7?shadow_comunicato_stampa=111887

    CENSIS, (2019). Rapporto Censis-Bayer sui nuovi comportamenti sessuali degli italiani, https://www.censis.it/welfare-e-salute/rapporto-censis-bayer-sui-nuovi-comportamenti-sessuali-degli-italiani-sintesi-dei

    Confalonieri, E., Olivari, M.G., (2017). Questioni di cuore. Le relazioni sentimentali in adolescenza: traiettorie tipiche e atipiche, Unicopli

    DAMASIO, A.R., (1995). L’errore di Cartesio, Adelphi

    DAMASIO, A.R., (2000). Emozione e coscienza, Adelphi

    Davies, W., (2016). L’industria della felicità, Come la politica e le grandi imprese ci vendono il benessere, Einaudi

    EHRENBERG, A., (1999). La fatica di essere se stessi, Einaudi

    Eibl-Eibesfeldt, I., (2001). Etologia umana: le basi biologiche e culturali del comportamento, Bollati Boringhieri

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    Harris, J.R., (2000). Non è colpa dei genitori, Mondadori

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    Lasch, C., (1981). La cultura del narcisismo, Bompiani Etas

    Lifton, R.J., (1989). Thought reform and the psychology of totalism: A study of “brainwashing2 in China, University of North Carolina Press

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    Nanni, F., Di cosa parliamo quando parliamo di educazione sessuale, https://psike.it/di-cosa-parliamo-quando-parliamo-di-educazione-sessuale/

    Nanni, F., (2000). La vita al tempo del Capitale, in: AAVV, Teoria del valore e senso capovolto, Quattroventi

    Nanni, F., (2010). I maestri del dolore, Pendragon

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    OLIVERIO, A., (2015). Neuropedagogia – Cervello, esperienza, apprendimento, Giunti

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    Rholes, W.S., Simpson, J.A., (eds). (2007). Teoria e ricerca nell’attaccamento adulto, Raffaello Cortina

    Riesman, D., (1999). La folla solitaria, Il Mulino (1a ediz. 1950)

    ROTH, P. (2001). Pastorale americana, Einaudi

    Rygaard, N.P., (2007) Il bambino abbandonato. Guida al trattamento dei disturbi dell’attaccamento, Fioriti

    Siegel, D., (2021). La mente relazionale. Neurobiologia dell’esperienza interpersonale, Raffaello Cortina

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    Twenge, J.M., et al., (20181). “Decreases in psychological well-being among American adolescents after 2012 and links to screen time during the rise of smartphone technology.” Emotion (Washington, D.C.) vol. 18,6 (2018): 765-780

    Twenge, J.M., Campbell., W.K., (20182). “Associations between screen time and lower psychological well-being among children and adolescents: Evidence from a population-based study.” Preventive medicine reports vol. 12 271-283. 18 Oct. 2018

    Ueda, P., et al., (2020). “Trends in Frequency of Sexual Activity and Number of Sexual Partners Among Adults Aged 18 to 44 Years in the US, 2000-2018.” JAMA network open vol. 3,6 e203833. 1 Jun. 2020

    Weiss M.D., Baer S., Allan B.A., Saran K., Schibuk H., (2011). The screens culture: impact on ADHD. Atten Defic Hyperact Disord. 2011 Dec;3(4):327-34

    Quest’opera di Franco Nanni è stata rilasciata con licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Condividi allo stesso modo 3.0 Italia.

  • Fermare il declino della scuola?

    Un libro che racconta il declino della scuola, la medicalizzazione, lo stress del docente, gli alunni sempre più fragili…

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  • Docenti e genitori, Pubblici Ministeri e avvocati difensori?

    E… se la smettessimo?

    Ci sono relazioni umane che si alimentano soprattutto nella frequentazione fisica faccia a faccia dei partecipanti. La relazione tra docenti e genitori vive al contrario in una dimensione in cui il rapporto vis à vis è quasi sempre del tutto episodico: ciascuno è libero di immaginare l’altro con narrazioni e aspettative molto personali. 

    Il genitore immaginato

    Cominciamo dunque dal domandarci: chi è il genitore narrato dalla mente del docente? L’insegnante, schiacciato da condizioni di lavoro sempre più complesse, dedica ai genitori una grande aspettativa, quella di una loro stretta, assoluta collaborazione che possa alleviare lo stress e la fatica. “Collaborazione” si traduce spesso in totale adesione ai valori e desiderata del docente, assai meno in cooperazione paritaria. Una aspettativa così grande va incontro a inevitabili delusioni, ma, se non sono troppe, è ancora possibile che docenti e genitori collaborino a partire dai rispettivi ruoli per una buona maturazione dei loro figli e alunni. Non è raro però che il docente si senta del tutto solo e inascoltato: ecco che allora i genitori vengono da lui immaginati come i “mandanti morali” delle malefatte dei figli, la causa primaria delle manchevolezze dei bambini, oppure pigri nullafacenti che lasciano i figli senza regole né disciplina. A volte vengono descritti come “sindacalisti” o “avvocati difensori” dei propri figli. Che ciò abbia o meno una corrispondenza con la realtà, questa forma del discorso racconta una relazione con i genitori intesa come conflitto o addirittura come aula di tribunale. In quest’aula ad essere sotto accusa sono per lo più i genitori, e la relazione in absentia si traduce in un processo in contumacia dove il docente, o addirittura la scuola stessa assume il ruolo di Pubblico Ministero. Per quanto ciò avvenga nella buona fede del superiore interesse dei minori, è bene ricordare che costoro ricavano da questi processi nulla più che ulteriori tensioni, e le relazioni scuola-famiglia divengono ancora più difficili. Il frequente ricorso ad avvocati da parte della famiglia è forse un triste sintomo di questa tendenza.

    Il docente immaginato

    Come è rappresentato il docente nelle narrazioni personali dei genitori? La maestra, specialmente per i più piccoli, può essere sentita da mamme e papà come un improprio sostituto di sé, che vive tanto tempo con il loro bambino, un tempo che sentono negato a sé per gli orari lavoro o per altre ragioni, provando così un misto di invidia e rivalità. Quando i figli sono più grandi l’insegnante pone maggiori richieste cognitive, e può assumere aspetti persecutori, quasi vampireschi, o viceversa venire idealizzato, a seconda del mondo emotivo dei genitori con cui si confronta. Il docente dovrebbe considerare naturali tutti questi vissuti, riconoscendoli con empatia e mostrando cura e attenzione per le preoccupazioni genitoriali: riceverà da loro più rispetto e considerazione.

    Il docente “eroe solitario”

    Vedo sempre più spesso insegnanti che parlano e agiscono come se fossero in una roccaforte sotto assedio, oppure su una zattera tra i flutti, investiti del ruolo eroico di difendere un pugno di valori minacciati dall’estinzione, raccolti intorno a qualche parola d’ordine: studio, cultura, regole, disciplina, rispetto, e così via. Quando è dominato da questo genere di narrazioni il docente rischia di mettere in atto modalità relazionali e stili di pensiero reattivi che portano ad agiti impulsivi; ne è un tipico esempio quello di riferire senza filtro ogni giorno al genitore le “malefatte” del figlio di fronte al bambino stesso. Si tratta di modalità di azione prevalentemente difensive e rigide su cui è bene vigilare poiché nuocciono alla qualità del rapporto con le famiglie e aumentano il rischio di stress e burnout. 

    “A casa non lo fa”

    Se il docente denuncia un determinato comportamento problematico dell’alunno, accade di frequente che i genitori rispondano “a casa non lo fa” oppure “con noi è bravissimo”. Per lo psicologo la cosa non è sorprendente, poiché il bambino, essere fortemente contestuale, manifesta normalmente comportamenti diversi e divergenti nei vari contesti di vita. Se anche il docente partisse da questo assunto, potrebbe motivare il genitore a considerare credibili le sue osservazioni, rassicurandolo anche sul fatto che non è in discussione il suo operato. Da qui può partire una autentica cooperazione per comprendere quali aspetti favoriscano nel bambino una condotta piuttosto che l’altra.

    Promuovere buone relazioni

    Quali possono essere dunque le azioni preventive per contenere il peso delle tante narrazioni reciproche? Iniziare ogni nuovo anno con un incontro non troppo formale dove famiglie e insegnanti possono parlarsi è già un primo passo, purché non si limiti a una mera enunciazione di doveri, richieste e obblighi. Anche in corso d’anno è opportuno curare soprattutto i contatti diretti e verbali con i genitori, possibilmente faccia a faccia, limitando allo stretto necessario le comunicazioni unidirezionali (lettere prestampate, avvisi, circolari ecc), a favore di comunicazioni bidirezionali ad alta reciprocità: il genitore si sentirà tanto più motivato a una reale collaborazione con il docente se avvertirà verso di sé un atteggiamento di ascolto e di attenzione. 

    Articolo originariamente pubblicato sui rivista cartacea del gruppo Giunti.

  • Alunni fragili, ma non serve incolpare i genitori

    La maestra Anna siede nella mensa vuota davanti a una pila di quaderni. Ha ancora negli occhi lo sguardo piangente di una bambina che, di fronte a una piccola difficoltà per un errore commesso, è sprofondata in uno stato di apparente disperazione. Episodi analoghi accadono di frequente in classe, trasmettendole l’idea di una diffusa e irrimediabile fragilità. Immagino di entrare nel grande stanzone e di sapere già a cosa sta pensando: 

    – Ciao Anna, il pianto di quell’alunna ti ha turbato parecchio, vedo.

    – Al pianto so porre rimedio: l’ho consolata e lei ha ripreso a lavorare. Mi turba assistere ai crolli di questi bambini di cristallo che vanno in frantumi al minimo urto causato da un errore, una difficoltà o una piccola frustrazione. È questo che mi irrita tanto. Loro piangono, si rattristano, e io mi sento ribollire di rabbia. Poi mi calmo, ma mi rimane dentro questa sensazione brutta.

    – Ma esattamente che sensazione è? 

    Inizialmente sento in quegli sguardi un’accusa contro di me, come se dicessero: sei cattiva, troppo esigente, inflessibile, hai fatto piangere un essere fragile e innocente. Poi però tutto si trasforma e la mia rabbia si rivolge verso tutti i genitori, perché è a causa loro, se questi bambini sono così fragili. Possibile che un piccolo errore o un momento di difficoltà debbano essere visti come la fine del mondo? Sono viziati e iperprotetti. E io spreco un sacco di energie a consolarli per delle inezie. Di certo io non sono stata cresciuta così.

    – Non ne dubito. Fino a non molto tempo fa la maggior parte dei bambini evolveva verso l’età adulta come se fosse naturale: salivano in alto… come un sughero galleggia nell’acqua, così scriveva Riesman. Crescere e maturare era visto più come l’effetto del trascorrere del tempo, che dello sforzo e del desiderio individuale. Non era pensabile che qualcuno affogasse e tornasse sul fondo, perfino senza nuotare si galleggiava. Ora il mondo intorno alla famiglia trasmette tutt’altro messaggio: occorre essere motivati, desiderare di crescere, nuotare di continuo, sforzarsi, altrimenti si va a fondo! Occorre voler crescere, e bisogna meritarselo. Ti meraviglia, dunque, che ogni piccola falla, ogni inezia, come dici tu, venga vista come la possibile causa di un naufragio? 

    – Se la metti in questi termini… no, non mi meraviglia. In effetti… ogni volta che parlo con un bambino dell’argomento, scopro che nessuno ha più voglia di crescere, che tutti vorrebbero restare piccoli e rimpiangono la scuola dell’infanzia… che sconforto! Però insisto: se i genitori non li proteggessero così tanto, le cose andrebbero meglio. Ah, quelli sono davvero un danno!

    – Allora me lo confermi: i bambini vedono la via verso il futuro come una fatica e se ne difendono. Riguardo alle famiglie credo che saresti meno severa se considerassi davvero il loro punto di vista. Pensa: sta finendo l’inverno, e ieri hai rimesso sul balcone le piante più delicate che avevi tenuto al riparo. Hai mai pensato che se le avessi lasciate al gelo sarebbero diventate più robuste?  

    – Che sciocchezza… no. Sarebbero morte. Ho un balcone a nord, è troppo… ostile.

    – Ostile… hai appena descritto lo stato d’animo di tantissimi genitori: vedono il mondo come un luogo ostile dove chi non nuota bene annega. Proteggono i bambini semplicemente perché hanno paura! Pauradi quel mondo in cui pensano, a torto o a ragione, di vivere, e nel quale lasceranno i loro figli. Li proteggono perché pensano che questo sia il loro bene, come tu hai protetto le tue piante prima del gelo!

    – Come sai rigirare le cose, tu! Eh ma dovresti vederli all’opera, sono arroganti e aggressivi, non ci si può parlare… 

    – È il graffio della gatta che difende i suoi cuccioli. Molti di loro deporrebbero le armi, se fossero messi in condizione di pensare che i loro bambini con te sono al sicuro, che li manterrai leggeri, capaci di galleggiare ridendo, che per loro non sei una minaccia ma una risorsa. Sai, io percepisco tanta ansia nella tua rabbia scatenata contro la loro fragilità, come se anche tu la pensassi come i genitori, sia pur in un ruolo diverso. Se inizi a filtrare la tua ansia, puoi vincere la loro diffidenza; ci vorrà tempo, ma è possibile. 

    – Questo però non renderà meno fragili i figli… 

    – Non avverrà subito, ma non sottovalutare il potere dell’azione sul clima di classe: ti posso dare qualche spunto. Comincia col dare tempo: niente minuti, cronometri, scadenze strette. Non fare loro fretta. Limita al minimo i momenti di valutazione e i relativi voti, e usa tantissimo la valutazione formativa: in questo fare e capire insieme si cela un messaggio rassicurante per tutti. E quando sei in classe, resta nel qui e ora: non pensare al futuro o alle colpe dei genitori. Sii presente e attenta. Rassicura i deboli e i lenti, tienili vicino a te.  Progressivamente la paura e la fatica degli alunni diminuiranno.

    Per saperne di più

    • S. Benzoni, Figli fragili, Laterza
    • U. Bronfenbrenner, Rendere umani gli esseri umani. Bioecologia dello sviluppo Erickson
    • G. Zavalloni, La pedagogia della lumaca, EMI

    (La citazione di Riesman proviene da: D. Riesman, La folla solitaria, Il Mulino)

    Articolo originariamente pubblicato su La Vita Scolastica 2019-20

  • Natura morta con Curriculum

    Natura morta con Curriculum

    Mi capita talvolta di leggere dei curriculum di giovani laureati. Ho osservato le cose che ci sono, ma assai di più quelle che non ci sono. Cominciamo dalla forma: da anni e anni nessuno osa più presentare CV che non siano “europass”, formato concepito per una altissima standardizzazione dei contenuti, tra cui spicca naturalmente la formazione: lauree, master, e così via. La loro elencazione regala la sensazione di un’esposizione di artiglieria, quasi si dovesse affrontare armati un mondo ostile.

    Nei curriculum si riportano sempre i libri che il soggetto ha scritto, ma mai quelli che ha letto, men che meno quelli su cui ha studiato, sofferto, pianto o riso. Eppure questi sono quasi sempre più importanti di quelli che ha scritto; questi ultimi, salvo eccezioni, sono per lo più un povero prodotto del narcisismo, i libri letti e studiati, invece, germogliano fino a fare la differenza.

    In un CV stanno scritte le esperienze di lavoro, ci mancherebbe, ma non ci sono i pensieri che si sono creati per esse, non ci sono le riflessioni, tanto meno le amarezze e le soddisfazioni. Non ci sono gli ostacoli superati né quelli evitati. Non ci sono le sconfitte né i fallimenti, figuriamoci le delusioni.

    In un CV occorre parlare della persona che si è; certo, non è facile, ma il “format” costringe a farlo. Il risultato è quasi sempre patetico, una cosa che somiglia tristemente ai testi melliflui che leggiamo sulle confezioni dei bagni schiuma o delle creme idratanti.

    Nei CV mancano le persone importanti che si sono incontrate. Ognuno ne ha almeno una. Nel corso della mia vita di studio ho incontrato diverse persone speciali alle quali devo quasi tutto. Il maestro elementare, che mi ha lasciato il suo spirito esplorativo e giocoso, e una immensa fiducia nelle possibilità dell’intelletto umano (una fiducia che più volte negli ultimi anni in me ha assai vacillato… ). Ne ho incontrati altri, nel tempo, e avevano tutti in comune una caratteristica: in loro era rimasto vivo qualcosa dello spirito originario dei bambini; erano curiosi, liberi, divergenti e attratti da ciò che non conoscevano. Dotati, anche, di quel rigore particolare che hanno i bambini quando giocano. Io lo ero un po’, essendo un bambino, ma devo a questi incontri la fortuna di aver apprezzato queste doti, e spero anche di averle tenute vive. Erano persone assai diverse tra loro, ma accomunate dalla gioia di mostrare agli altri vie percorribili, metodi ingegnosi e originali, ed erano forse anche accomunati da un senso di sfida curiosa di fronte all’errore, che li spingeva a cercare di capire in che modo si fosse ragionato per arrivare a quell’errore. Senza quelle persone io sarei diverso, ma nel mio CV di costoro non v’è traccia.

    Nei CV si pone molta attenzione alle “capacità e competenze”, che lo scrivente autocertifica senza timore, scegliendo tra quelle più socialmente desiderabili: tra le più tipiche il saper lavorare in team, o saper scrivere e/o leggere inglese o altre lingue, naturalmente a livello “ottimo”. Poco importa, se poi si lavorerà quasi sempre da soli parlando italiano; in alcune realtà servirebbe forse saper parlare e comprendere i dialetti, ma non troveremo mai nessuno che dichiari di avere un livello “ottimo” nei dialetti salentini o del bresciano. Per lavorare in un reparto psichiatria d’urgenza il napoletano o magari il veneto, e certamente l’arabo, non servono più spesso che l’inglese? 

    Che altro manca, nei CV? La storia della persona: se abbia amato e come, se sia stata amata e da chi, se abbia avuto una madre premurosa o trascurante. Se abbia conosciuto l’estasi del sesso e dell’amore, se sia diventato genitore e che esperienza ne abbia ricavato. Se abbia visto morire una persona. Se abbia visto nascere un bambino. Se abbia tenuto in braccio un neonato, e se lo abbia fatto per ore, di notte, da solo. Se abbia fissato a lungo un gatto negli occhi e se abbia imparato a difendersi dai suoi graffi. Come tante altre cose, i curriculum sono un prodotto del loro tempo. E il nostro è evidentemente un tempo triste.

    (Scritto originariamente nel 2015, totalmente rivisto e ampliato nel 2023)

  • La tribalità vuota

    La tribalità vuota

    Uno spettacolo fra il rap, il trap e… il trash che ho “dovuto” ascoltare forzosamente causa volumi altissimi, mi ha dato l’occasione di osservare allo stato puro un fenomeno che si ripropone spesso, ancorché in forme meno evidenti.

    Una voce maschile gridata, gutturale e sovraccarica aizza gli astanti ritmicamente, e quelli rispondono con grida corali scomposte ma molto forti e altrettanto sovraccariche. Se ascolto i toni, mi raffiguro uno scimmione capo deciso, ispirato e determinato che prepara un plotone pronto a tutto. È una alternanza tra un uomo solo e il coro, una forma responsoriale, che gli antropologi della musica riconoscono come forma archetipica che unisce musica, danza, sacro, ritualità e relazioni sociali (ricordo in particolare l’apporto di J. Blacking).

    “Tribalità”, si potrebbe dire, nulla di nuovo, anzi, assai antico! Ma una differenza sostanziale c’è: queste ritualità ancestrali nella storia umana compaiono in occasioni di grande importanza per la collettività, momenti fondativi, di sacralità, oppure anche di lotta per la sopravvivenza, e ciò fornisce sostanza e funzione a quei toni alti, affermativi, e a quel gruppo di fedeli e/o guerrieri pronti a tutto. Il novecento, nella sua prima metà, ci ha fornito lugubri esempi con le dittature del tempo.

    Anche i toni dello spettacolo (t)rap/trash davano la stessa impressione e la stessa adrenalina, ma lì nessuno era “pronto a tutto”: l’artista era pronto ad andarsene in albergo, arricchito del cachet della serata, e il pubblico ad andarsene a letto, poi in spiaggia tardi l’indomani, passata l’emicrania, dormendo sul lettino. Nella storia umana non si sono usate, finora almeno, forme simili per sfangare una sera o per rimorchiare, ed ecco quindi la differenza: è tribalità, sì, ma una tribalità vuota, senza contenuti. Una tribalità di mercato, una lotta per la sopravvivenza… alla noia.

  • Troppo non è abbastanza

    Troppo non è abbastanza

    Le testimonianze che mi giungono da studenti delle medie e delle superiori sono sempre più allarmanti. Tutti sembrano considerare normale che la mole di contenuti da studiare e memorizzare, unita alla quantità di esercizi e compiti, sia al limite e spesso oltrepassi la soglia della fattibilità. Basta un piccolo impegno imprevisto, una visita medica, magari una festa, ed ecco che diventa impossibile finire il lavoro scolastico, salvo tirar tardi o svegliarsi all’alba rinunciando a una o più ore di sonno. 

    È diventato normale, in una settimana di scuola, sostenere fino a sei, sette verifiche scritte e anche interrogazioni orali, alcune delle quali vertono su molte decine di pagine fitte di contenuti e nozioni. 

    Chi pratica sport lo fa quasi sempre in società fortemente appiattite sulla dimensione agonistica, con l’inevitabile conflitto strisciante tra tempo di allenamento e tempo di studio, e tutto a scapito del tempo di vita e di socialità. Dopo l’ingresso alle superiori molti scelgono di rinunciare allo sport e altri allo studio di uno strumento musicale: c’è troppo da studiare per la scuola, dicono. Anche le uscite con gli amici finiscono con l’essere molto limitate, confinate quasi sempre al sabato sera e non proprio ogni settimana. 

    Talvolta qualcuno osa timidamente lamentarsi, ma l’ideologia del merito e del dare-il-massimo è penetrata talmente in profondità nelle fibre nervose della società che ogni discorso che miri ad abbassare le richieste performative è automaticamente derubricato come pigrizia e delegittimato in partenza.

    L’adolescenza è diventata, per i più, la stagione degli impegni “da buio a buio”, in attesa di diventare adulti e… avere ancora più responsabilità. “Come ti immagini nel futuro?” “Sepolto di impegni senza fine”. 

    In questa eterna quaresima non dovrebbe stupire che il divano, lo smartphone e le serie TV siano così attraenti. Non dovrebbe stupire nemmeno che tanti giovani siano depressi, rinunciatari e senza autostima; trovo semmai sorprendente che tanti stringano i denti e vadano avanti. Fin quando ce la fanno. 

  • Solo l’indifferenza è asessuata

    Come prendono forma l’identità di genere e l’orientamento sessuale di una persona? Vengono dal corpo, dal sistema nervoso e dagli ormoni, oppure da una libera scelta consapevole come iscriversi a Medicina o a Giurisprudenza? In questo dibattito a tratti surreale sembra spesso dimenticata la ricerca della risposta a questa domanda, eppure senza di essa diviene difficile argomentare in qualsiasi direzione senza che ci si fraintenda.

    Nel mio lavoro ho incontrato molte persone con identità e orientamenti “non standard” e mi sento di affermare che rientrino tutte nell’area della prima risposta: scoprirsi omosessuali o di un genere diverso dalla forma esteriore del proprio corpo è un processo, una presa d’atto di fatti complessi che hanno la loro sede nei visceri, nelle emozioni e nelle pulsioni. Non una scelta dello spirito ma un dato di fatto della carne. A volte piega nella gioia, altre nel dolore. Credo che questo sia un motivo serio per considerare un abominio ogni forma di omofobia o gender-fobia, nonché le cosiddette terapie riparative per “curare” l’omosessualità. 

    Non tutti la pensano così, però. Ci sono correnti di pensiero che vedono questi processi come una sorta di libera scelta compiuta nelle stanze linde e ordinate dello Spirito, dell’identità, delle affinità elettive, al riparo dalle venefiche secrezioni del corpo vile. Non dico che ciò sia impossibile, ma, se accade, accade soltanto quando il corpo tace, asessuato in ogni sua dimensione: allora si può scegliere la propria collocazione come si sceglie un luogo di vacanza o gli studi accademici, senza travaglio né dolore. Ma se si entra nella sfera sessuata, sia essa banalmente binaria o lgbtq++++…, allora tutte le passioni entrano prepotentemente in gioco e se ne portano addosso i segni e le cicatrici. Sesso e passione creano differenza, sempre, e solo l’indifferenza è asessuata.

  • La solitudine dei numeri zero

    La solitudine dei numeri zero

    Disturbi psichiatrici, omicidi e raptus: gli ultimi due casi di una lunga serie stanno già scomparendo dalle cronache, soppiantati dall’inflazione e dal corretto uso dell’articolo maschile. Eppure una riflessione sarebbe necessaria:

    • Il servizio sanitario ha mezzi idonei e sufficienti per gestire persone con pregressi e/o conclamati problemi psichiatrici con aspetti aggressivi?
    • La qualità della loro vita quotidiana dipende sostanzialmente dalla presenza e dai mezzi di famiglia e/o dei congiunti?
    • Si considera seriamente il ruolo della solitudine del favorire decorsi infausti nel disturbo psichiatrico? 

    Se la prima risposta somiglia a un “no”, la seconda diventa un “sì”, e la terza un tragico NO. La psichiatria pubblica ha come azione principale (quando non anche unica) la terapia farmacologica, che certo, può ipoteticamente contenere l’aggressività, ma con notevoli effetti collaterali e nessuna vera garanzia, sia per i limiti intrinseci delle molecole stesse, sia per il rischio di assunzioni disordinate o interrotte, il che può talvolta anche favorire accessi violenti. 

    Cosa può fare, ad esempio, una coppia di genitori ultrasettantenni con una modesta pensione per gestire un figlio di 40, 50 anni con gravi disturbi psichici? E che cosa può una moglie con uno o due figli piccoli e un marito con simili problemi? Tanto, rispetto alle loro forze, ma terribilmente poco rispetto alla bisogna.

    Questa è la solitudine dei numeri zero, degli ultimi. Queste persone sole, trattate con farmaci che assumono anche disordinatamente, rischiando scompensi e malattie, che vagano nel mondo come monadi agitate da tristezza, rabbia e disperazione.

    Foto di Nadezhda Moryak: https://www.pexels.com

  • Generazione Z: il corpo assente

    L’homo sapiens di Generazione Z (nato tra il 1997 e il 2012) ha tendenzialmente una storia di bisogni normali ma disattesi: ad esempio, aveva bisogno di accudimento e presenza ma è stato inserito troppo precocemente in strutture educative, aveva bisogno di tempo per maturare e apprendere ma è stato sollecitato a produrre performance che non era ancora in grado di dare… Le sue caratteristiche di base:

    • Disorganizzazione corporea, per aver vissuto troppo a lungo sballottato da un ambiente chiuso all’altro, in automobile, in passeggino, senza poter esplorare l’ambiente fisico con il proprio corpo. Al massimo, egli riceverà un addestramento formale in uno specifico sport dove potrà perfino eccellere sotto lo sguardo fiero di mamma, di papà o dei coetanei, ma continuerà a conoscere il proprio corpo non come fenomeno vitale emergente, ma soltanto come strumento. Continuerà poi a cancellarne ogni segno di secrezione, odore e carnalità lavandosi, depilandosi e profumandosi ossessivamente.
    • Disorganizzazione sessuale, caratterizzata da comportamenti idiosincrasici: disinteresse per il sesso, o viceversa dipendenze da pornografia, sessualità ludica e disimpegnata, o viceversa morbosità incontrollata. Difficoltà nel costruire identità di genere e orientamento sessuale per la scarsa mentalizzazione del corpo.
    • Disorganizzazione affettiva, per aver subìto distacchi troppo precoci e lunghi dalle figure di attaccamento. Non riesce a fidarsi davvero dell’adulto, non riesce a costruire un rapporto significativo con esso al di fuori della famiglia e spesso anche all’interno di essa. Vive una incolmabile ansia per la separazione, da piccolo piange a lungo al distacco entrando a scuola o rifiuta di entrare, cerca disperatamente il contatto con l’adulto al momento del dormire. Oppure abbandona la speranza dell’attaccamento e vive in una dimensione di superficie e di evitamento del legame, diventando un iperattivo “amico di tutti” e dunque in fin dei conti di nessuno.
    • Disorganizzazione attentiva, per carenza di tutte quelle esperienze stratificate che portano a maturazione i circuiti neurali preposti all’attenzione (scambi affettivi con la madre, scambi verbali, ostensione e presentazione degli oggetti da parte dell’adulto, relazioni significative e orientate da una figura-guida, esperienze motorie spontanee, gioco libero… E tanto altro). Essi sono quasi sempre squilibrati nel focus dell’attenzione: completamente assorbiti da sé stessi e da stimoli interocettivi e egosintonici, o viceversa iper-vigili verso l’ambiente in modo non selettivo (con conseguente alta distraibilità). 
    • Disorganizzazione delle autonomie, per aver vissuto una miscela sbilanciata di iperprotezione e spinte anticipate al far da sé, miscela spesso ritagliata esclusivamente sui bisogni concreti e affettivi del genitore.
    • Disorganizzazione del rapporto emotivo e cognitivo con sé stessi. Questi individui letteralmente “non sanno chi sono”. Le precedenti forme di disorganizzazione, sommate insieme, generano un soggetto incapace di “esserci”. Il suo corpo è rimasto due volte svuotato, dapprima del contatto pelle a pelle prolungato e rassicurante, in seguito della sana esperienza spontanea dell’esplorazione motoria. Ne risultano appetiti variamente insaziabili in uno o in entrambi i campi. Abitano corpi vuoti e sconosciuti, questi giovani dell’horror vacui, continuamente affamati di stimoli esterni che non sanno interiorizzare né far durare. Il disconoscimento del corpo, affettivo cognitivo e percettivo, porta spesso a fenomeni crescenti dello spettro ansioso e ipocondriaco, nonché a fenomeni di autolesionismo utilizzato come strumento di (tentata) regolazione emotiva.

    Quest’opera di Franco Nanni è stata rilasciata con licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Condividi allo stesso modo 3.0 Italia.

  • Avere 13 anni: disagio relazionale e sociale, la paura, il dolore

    Negli ultimi dieci anni ho avuto modo di conoscere in modo diretto il disagio di un discreto numero di preadolescenti, alunni e alunne (in prevalenza alunne) delle scuole medie. Distillando le voci più frequenti, i disagi più spesso espressi, credo di poter sintetizzare i contenuti del disagio stesso in alcune frasi-tipo:

    • Gli altri non mi amano quanto io amo loro. Io non sono importante per loro quanto loro lo sono per me. Io non valgo niente, non sono niente, non servo a niente.
    • L’unica persona degna di esistere è una persona bella, in forma, intelligente, brillante, simpatica, amata da tutti, mai triste, sempre sorridente. Ma soprattutto: non sono io.
    • Non mi piace niente di me. Il mio corpo è brutto. Pieno di difetti.
    • Mi amerai lo stesso quando vedrai come sono davvero? Come potrai amare tutte le cose brutte e difettose che ci sono in me? Chi mai potrebbe farlo? Nessuno.
    • Come si fa a sopportare le cose che finiscono, le persone che si perdono, i cari che vanno via per sempre, come si fa a sopportare che i legami non siano per sempre?

    La reazione più diffusa a questi vissuti è la chiusura in sé, il pianto, la distrazione perseguita con Smartphone e altri vari mezzi telematici ed elettronici; diffusa la pratica di farsi piccoli tagli sulla pelle delle braccia. Il dolore fisico che ne deriva assume un duplice significato: lenisce (un poco) il dolore mentale spostandolo su uno stimolo fisico più forte e sembra marcare, quasi punire la persona come “sbagliata” e “colpevole” del suo dolore.

    Le figure genitoriali sono viste alternativamente come ombre lontane, indifferenti, che non provano interesse per le figlie, o come giudici arrabbiati, ostili e talvolta fisicamente punitivi, e pressoché mai come una risorsa positiva. Molti di questi ragazzi e ragazze vivono una solitudine senza fondo e senza sollievo. Senza riscatto.

    Grafico 1

    Il tema profondo, il nucleo comune che sembra stare alla base di tutto, è il bisogno di essere amati, la paura di non esserlo, la difficoltà di creare dei legami e di accettarne la finitezza.

    Vediamo nel grafico 1 l’insieme dei temi emersi (considerando che assai spesso un individuo porta più temi in colloquio), e nel grafico 2 l’incidenza dei singoli temi sull’insieme dei soggetti. Come si vede, il nucleo comune, evocato esplicitamente da quasi 7 ragazzi su 10, occupa il maggior spazio accanto al tema correlato e affine delle difficoltà relazionali con i coetanei e con i pari; anche laddove non veniva espresso direttamente, comunque, quel nucleo comune era, in filigrana, pressoché sempre presente. Le altre quattro tematiche emerse assorbono meno di un quarto delle segnalazioni.

    Grafico 2


    Spicca, in modo più evidente nel grafico 2, che un sesto dei soggetti che hanno partecipato fosse alle prese con una difficile elaborazione di un lutto familiare, quasi mai recente. Fa riflettere su quanto indifesa questa generazione si possa trovare di fronte alla perdita di persone care, e in generale alla finitezza dei legami affettivi, e ci si chiede se la generazione dei loro genitori non lo sia altrettanto.

    Quest’opera di Franco Nanni è stata rilasciata con licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Condividi allo stesso modo 3.0 Italia.

  • Come i social spostano la tua opinione senza che te ne accorgi

    Come i social spostano la tua opinione senza che te ne accorgi

    Come è possibile che tante persone, anche smaliziate e con esperienza, possano diventare sostenitrici di teorie complottiste e/o pseudoscientifiche che a prima vista dovrebbero risultare incredibili anche a un bambino? Se lo domandano in tanti, spesso sgomenti di fronte ai post di amici fraterni che all’improvviso sembrano esser diventato accesi sostenitori di questo o quel “pacco”… talvolta la cosa si aggrava, si cancellano amici, si discute… ma dietro tutto questo si può immaginare un lavoro di tanti profilatosi, a partire da quel che sappiamo di Cambridge Analytica… ho provato a immaginare uno scenario per farlo comprendere a tutti.

  • Dovrei ma non riesco

    Dovrei ma non riesco

    Il dramma della “mancanza di volontà” – Dovrei studiare per l’esame, ma guardo il telefono e serie TV. Dovrei lavare i piatti ma li accumulo per giorni… Incontro sempre più spesso adolescenti, giovani adulti e talvolta adulti incapaci di intraprendere determinate azioni pur essendo parte dei loro piani di vita o delle loro necessità quotidiane. La persona riferisce di “voler” o “dover” fare una cosa, ma di rimandarla senza scadenza, come se non disponesse del controllo sulle proprie azioni. Due video per capire e, possibilmente, risolvere.

  • La caduta del muro in psicoterapia e … una cosa divertente che non farò mai più

    La caduta del muro in psicoterapia e … una cosa divertente che non farò mai più

    Scrivo queste righe non certo per aggiungere una insignificante recensione alle tante illustri e prestigiose che questo libro ha già ricevuto, ma per invitare amici e colleghi a una lettura straordinaria e per molti versi insolita e coinvolgente.

    È in atto un cambiamento radicale nel modo di fare psicoterapia: è caduto il muro tra psicanalisti, cognitivisti, comportamentisti, lavoro sul corpo, tutte distinzioni che nei luoghi nuovi delle pratiche psicoterapeutiche sono ormai archeologia. In questo romanzo-saggio articolato su più livelli troviamo: una storia della psicoterapia vista da un’angolazione non conformistica, una narrazione romanzesca su un paziente difficile, sofferente e difeso, e una dimensione autobiografica dolorosa, quasi un romanzo di formazione. Poi si aggiunge la parte essenziale, un meta-livello che introduce in modo vivo e partecipato un modo di fare terapia capace di produrre cambiamento anche nelle situazioni difficili, senza negarne o dissimularne la fatica. Un modo che sempre più sta diventando anche il mio. Sempre più spesso il paziente lascia la poltrona, assume posture diverse, rivive a occhi chiusi esperienze che lo hanno segnato, scopre emozioni prima nascoste che hanno condizionato tanti suoi gesti e tante sue scelte, e finalmente inizia a scrivere pagine nuove nel corpo e nella mente.  Il muro caduto non è solo quello tra scuole di pensiero, ma quello che impedisce in tanti pazienti un vero cambiamento, che può accadere solo coinvolgendo la loro storia, i loro circuiti cerebrali e la loro memoria motoria ed emotiva. Questo è in definitiva il motivo principale per cui invito colleghi e amici cultori della materia a leggere questo libro straordinario, ma non l’unico.

    La sfida impossibile di combinare letteratura e saggistica in un’unica opera è perfettamente riuscita: si sente l’eco di un D. Foster Wallace talvolta divertito, talvolta doloroso e crudo. Parafrasando un suo titolo celebre, potremmo dire che questo libro parla di una cosa divertente che potremmo non fare più: sederci davanti al paziente (o dietro), e parlare, parlare, parlare. Il corpo e il sistema nervoso intero non possono più essere lasciati fuori dallo studio, e d’altro canto coloro che già lavoravano sul corpo possono ora basarsi su assunti ben fondati al posto di quelli precedenti, nati da intuizioni talvolta geniali ma del tutto immaginifiche e senza basi empiriche. 

    Siamo entrati in un’epoca in cui si sta delineando gradualmente una scienza della psicoterapia, anche se uso malvolentieri questo termine che sa di camici bianchi e laboratori, e ricorda un po’ le scatole dove Skinner metteva topi, piccioni, e perfino sua figlia. Anche queste ricerche, come i testi di Freud, fanno ormai parte della storia, o dell’archeologia, ma certo non più del razionale oggi utilizzabile come tale. Si può parlare di una scienza, non certo esatta, ma assolutamente umana come non mai, e che contatta tutte le categorie dell’umano servendosi anche di evidenze, ricerche e validazioni sul campo. Fa sorridere pensare che fino a poco tempo fa ci si poteva porre il problema se dare la mano al paziente o no. 

    In chiusura aggiungerei una modesta proposta: questo è un libro che dovrebbe avere cittadinanza nelle lauree magistrali in psicologia clinica, magari sostituendo l’ennesimo volume che ripercorre, come fossero le tabelline, le categorie del DSM 5, e mettendo al suo posto un testo che rappresenta concretamente la possibilità che questo lavoro possa riempire (e cambiare) una vita. 

  • Creare in modo semplice un sistema di regole condiviso

    1. Delimitare l’ambito nel quale si vogliono creare regole condivise, ad esempio: gestione della casa, gestione di una stanza, gestione di un laboratorio o di altri spazi, veicoli o strumenti condivisi da più persone.
    2. Ciascuna persona coinvolta riceve il compito di stilare un elenco di regole che vorrebbe vedere applicate è che è naturalmente disposta a rispettare in prima persona.
    3. Si possono eventualmente stabilire alcuni semplici criteri per la stesura di regole se le circostanze lo richiedono. In linea generale è sufficiente stabilire che ogni regola debba riguardare tutti i partecipanti senza distinzioni.
      1. Per comodità è meglio inserire ogni regola in una riga di un foglio elettronico.
      2. In generale è opportuno che ogni persona stili un proprio elenco indipendentemente dagli altri.
    4. Una volta che tutti hanno prodotto il loro elenco di regole si può creare un piccolo gruppo di lavoro (o incaricare una sola persona) che provvede a inserirle in un unico foglio elettronico.
      1. Se si trovano regole sostanzialmente uguali che prescrivono lo stesso tipo di comportamenti, vanno riunite in una sola norma.
    5. Viene quindi creato un unico foglio elettronico con l’intera lista di regole e a fianco di ogni regola una colonna per ogni persona coinvolta: serve per esprimere la propria contrarietà a quella determinata norma. Anche qui ciascun membro esprime la propria contrarietà a questa o a quella regola in modo autonomo.
    6. Alla fine del lavoro ci saranno regole accettate da tutti, regole accettate da alcuni, e regole accettate soltanto dalla persona che le ha proposte (nell’esempio gli spazi di approvazione da parte di chi propone sono stati anneriti, poiché è ovvio). Come criterio generale si può dire che:
      1. le regole accettate da tutti sono automaticamente in vigore
      2. le regole respinte da tutti (tranne che ovviamente da chi le ha proposte) sono automaticamente eliminate. 
      3. Le regole accettate solo da alcuni possono essere trattate in diversi modi, ad esempio con un criterio di maggioranza, o un piccolo dibattito che permette di comprendere i bisogni di tutti e di cercare un modo negoziato di soddisfare sia ii favorevoli che i contrari a una certa regola.
    7. Terminata all’elaborazione e deciso quali regole della categoria intermedia dovranno entrare in vigore, magari in versione modificata, si può licenziare il documento finale che stabilisce le regole di convivenza di quel gruppo di persone in quel determinato spazio.

    Ecco una semplice esemplificazione pratica.

  • Eredità psicologica e psichiatrica della pandemia

    È ancora molto presto, ma non troppo presto per immaginare un bilancio delle conseguenze psicologiche (e anche psichiatriche) della pandemia. Per quanto gli scenari siano estremamente differenziati e articolati per fasce socio-economico-culturali, ritengo che avremo a che fare con diversi fenomeni che provo a elencare schematicamente.

    Tutta la fascia di persone con difficoltà relazionali, ritiro sociale, rinuncia alla vita affettiva, spesso con il correlato della depressione, ragionevolmente rischia rilevanti ricadute e peggioramenti nella propria condizione.

    Bambini e adolescenti con pregresse situazioni (conclamate o borderline) di fobia scolare, ritiro sociale, dipendenza da web, social-network e videogame sono destinati a peggiorare, o a permanere in una condizione cronica indeterminata, spesso con perdita di contatto con i clinici di riferimento. Questo porterà in seguito a un difficile lavoro di recupero.

    Adolescenti e giovani adulti, perlopiù non legati affettivamente a partner, con disagi più o meno latenti e fino a due mesi fa pseudo-compensati con una intensa vita sociale nella Movida, nell’alcool, in relazioni superficiali ma quantitativamente rilevanti, si sono trovati all’improvviso privati della possibilità di tale compensazione. Non è prevedibile complessivamente quali comportamenti saranno messi in atto da questa fascia di popolazione per tentare un coping con le proprie condizioni psichiche preesistenti al lockdown, ma non è difficile immaginare che le sostanze psicotrope svolgono un ruolo ancora importante, e che possano verificarsi trasgressioni rilevanti (nel segno della negazione) tentando di ripristinare i comportamenti precedenti. (potrebbe essere questa una chiave di lettura degli assembramenti sui Navigli a Milano?)

    Nell’ambito delle relazioni di coppia possiamo immaginarci un “effetto terremoto” soprattutto sulle relazioni già in fase di transizione verso la chiusura o verso la costruzione del legame: una serie di scosse che fa cadere gli edifici più instabili ma lascia in piedi altri e rivela anche risorse o falle prima nascoste.

    È facile immaginare una vasta area di popolazione interessata direttamente o indirettamente dalle disastrose conseguenze economiche della pandemia. Oltre a tutte le conseguenze pratiche e concrete sulla vita di queste persone, dobbiamo mettere in conto un incremento rilevante di disagi psichici lievi, moderati o gravi, con effetti moltiplicati a causa della impossibilità di accedere a quello che è pressoché l’unico canale di cura psichica ovvero il privato a pagamento.

    In linea generale tutti coloro che sperimenteranno un disagio psichico e non solo psichico a causa della pandemia saranno da considerarsi a rischio di deformazioni cognitive e emotive di varia natura: dall’incremento di fobie di contaminazione fino a comportamenti di negazione più o meno infarcita di spunti paranoidi e complottisti

    La patologia del senso del futuro che già invadeva generosamente un po’ tutti i paesi industrializzati non potrà che accrescersi almeno sul piano dei grandi numeri per l’enorme aumento di incertezze economiche esistenziali e relazionali che stiamo tutti vivendo. Questo è naturalmente un ottimo bacino di incubazione per tutti i disagi della sfera depressiva e ansiosa.

    Non vorrei apparire troppo pessimista, ma mi sento di affermare che così come molte patologie non-Covid hanno avuto un esito spesso letale per la rinuncia o l’impossibilità a ricorrere alle cure sanitarie, allo stesso modo corriamo il rischio che molte patologie (franche o solo potenziali) dell’area psichica rimangano nascoste tra i muri delle case divenute prigioni con una serie di correlati negativi quali disperazione, litigi, abuso di sostanze, violenza domestica.

    Il quadro fa rabbrividire ma è importante tenere conto anche di alcuni fattori potenzialmente protettivi: credo si sia consolidato in fasce considerevoli di popolazione un sentimento di appartenenza e di “essere sulla stessa barca” che produce comportamenti adeguati, solidali e costruttivi. Per quanto ancora in modi del tutto insufficienti comincia a farsi un po’ di spazio nel mondo politico la consapevolezza che, se è vero che la pandemia non è una guerra, i provvedimenti economici e le scelte industriali hanno molti punti di contatto con l’economia bellica: riconversione industriale, spesa pubblica, infrastrutture e sostegno alle fasce deboli. Se queste timide aperture diverranno meglio proporzionate al bisogno e si metterà in atto concretamente una riflessione sui disastri prodotti dal nostro modello di sviluppo, forse abbiamo qualche timida speranza.

    Come psicologo mi sono chiesto cosa era possibile fare in questa fase, e per quanto sia consapevole che ogni singolo tentativo è una goccia nel mare, ho pensato di iniziare con un tutorial per quelle persone che con proprie risorse possono evitare un esacerbarsi delle loro condizioni, se orientate e ben consigliate. È poco, pochissimo, quasi nulla, ma se altri colleghi si uniranno in un comune sforzo di fare un lavoro di prevenzione allargato, capillare e mirato alle diverse forme di disagio, forse otterremo almeno un contenimento delle conseguenze della pandemia sul benessere psichico e la salute mentale.

    Il mio piccolo contributo lo trovate qui

  • La pandemia ci ha lasciato più infelici?

    La pandemia, la distanza, l’isolamento, le preoccupazioni, le abitudini sconvolte… tutto questo ci potrebbe aver lasciato diversi disagi psichici che vanno individuati e gestiti da subito con strategie semplici e vincenti. Ho realizzato sei video con i punti essenziali per orientarsi e coltivare la propria mente, e fare una opportuna prevenzione rispetto al cronicizzarsi di condizioni di malessere.
    Un video tutorial psicologico semplice ed essenziale in sei parti basato sulle terapie cognitivo-comportamentali di terza generazione per orientarsi e gestire i malesseri post pandemia.

  • Farsi ascoltare dai figli

    Farsi ascoltare dai figli

    e farli crescere in armonia

    Soprattutto in questi giorni, ma non soltanto, ci si sente genitori di figli difficili, genitori di figli arrabbiati, oppure genitori stanchi, o troppo stressati, sfiniti e sfibrati. Le situazioni più caratteristiche che provocano questo logorio del genitore avvengono nell’infanzia ma non mancano nell’adolescenza, soprattutto nelle sue fasi iniziali. A volte appare perduta la possibilità di essere genitori felici di figli felici, mentre è sempre possibile ritrovarla con una guida efficace, e trasformare le situazioni stressanti in occasioni di apertura in cui sentirsi adeguati e capaci.

    Il nucleo forte di questo breve percorso di training è un approccio psicoeducativo basato sull’ACT (Acceptance & Commitment Therapy) e sulla Mindfulness che mira a modificare il modo in cui ci si pone verso questo genere di problemi.

  • Pensieri che tengono svegli

    “A volte mi sveglio, sono le tre, le quattro, e comincio a pensare, pensare, tante cose che mi assillano, e non dormo più…”

    Succede, e non solo in questo periodo, che pensieri indesiderati si affollano nella nostra mente proprio quando vorremmo riposare. Scopriamo insieme alcune semplici mosse che permettono di archiviare i pensieri molesti.

    In questo video impariamo a districarci dalla situazione. Il video citato alla fine è questo: Come liberarsi per pensieri assillanti.

  • Ansia per verifiche e interrogazioni

    Ansia per verifiche e interrogazioni

    Come non farsi paralizzare

    Stai per iniziare una verifica. Senti il cuore che batte, magari formicolio alle mani o sudore o tremore alle gambe. Tutto questo è normale. Prenditi qualche secondo di tempo, lascia da parte per un attimo la verifica, e concentrati solo sui punti dove senti il peso del tuo corpo: se sei in piedi saranno le piante dei piedi, se sei seduto saranno altre parti del corpo. Senti il peso del corpo, respira lentamente e profondamente, fai almeno tre respiri in questo modo, come se non esistesse nient’altro intorno a te. Fatto questo inizia la verifica. Se si tratta di un’interrogazione orale cerca comunque di fare queste cose dentro di te, mentre ti prepari ad affrontare le domande dell’insegnante.

    Il cuore batte, batte forte, e lo fa semplicemente perché la tua mente ha individuato un potenziale pericolo che in questo caso sarebbe non sapere le risposte, prendere un brutto voto, fare brutta figura eccetera. Il fatto che il cuore batta forte non significa nient’altro che questo: il tuo corpo ha ricevuto un segnale di pericolo e ha dato l’allarme: esattamente come sentire un brivido quando entri nel mare e l’acqua è un po’ fredda. Non c’è niente di cui preoccuparsi.

    Nel caso di una verifica scritta utilizza dei fogli bianchi che porti con te o, se sei a distanza, usa lo scroll dello schermo per inquadrare soltanto una domanda per volta lasciando fuori dal campo visivo tutte le altre. Solo quando hai già risposto a una domanda procedi a inquadrare quella successiva.

    E se non so rispondere a una domanda che faccio? Prima di darti una risposta ti chiedo assolutamente di fare ora, proprio ora che stai leggendo, un piccolo esperimento. 

    Vai in bagno o in cucina e apri il rubinetto. Ora usando una sola mano cerca di afferrare un poco di acqua. Afferra il flusso di acqua che scende e vedi se puoi trattenerne un po’ in mano. Ci riesci? Immagino di no. Non puoi afferrare l’acqua. A volte le risposte che cerchi ai quesiti orali o scritti sono come l’acqua, tu cerchi di afferrarle ma non le trovi nella mente e non ti rimangono. Ora pensa: cosa devi fare per raccogliere un po’ di acqua nelle tue mani? Forse devi semplicemente metterle in forma di tazza e lasciare che un po’ di acqua si depositi. Insomma devi togliere tensione e raccogliere quello che trovi nella tua mente. Nel farlo respira profondamente e lascia andare via tutte le frasi che si affollano nella tua mente: non ce la faccio, non so la risposta, farò una brutta figura, e così via.

    Se anche rilassandoti e respirando proprio non conosci o non trovi la risposta a una certa domanda, passa comunque alla successiva tornando più tardi alle domande a cui non hai risposto: lasciando passare un po’ di tempo la tua mente potrebbe essere cambiata e avere stabilito dei collegamenti che prima non c’erano.

    Se durante un orale ti succede di avere un vuoto, magari un vuoto totale, non restare muto! Puoi semplicemente dire all’insegnante hai un momento di ansia,  chiedendo di ripetere o riformulare la domanda. Se ancora non trovi nulla nella tua memoria, fai domande, ad esempio: “prof, quello che mi sta chiedendo ha a che fare con…”, oppure “sono confuso dall’ansia, non riesco a collocare sua domanda, di quale argomento fa parte?” Insomma, rimani attivo pur non rispondendo ancora, sarà molto meglio che restare muto e passivo. Intanto che fai questo, lascia che nel tuo corpo si scatenino eventuali sensazioni legate all’ansia, sono normali e non devi preoccupartene troppo. Cura di respirare con calma e ampiamente.

    Quando ti prepari per esposizione orale ti servono due strategie che devi allenare prima, e separatamente. 

    Uno: crea una strategia per esporre un argomento in ordine, collegando ogni parte a uno schema fisso, le stanze della tua casa o le parti del tuo corpo. Se l’argomento fosse formato, ad esempio, da tre parti, cellule, tessuti e organi, fissati in mente che le cellule sono collegate alla tua testa, i tessuti al tronco, e gli organi alle gambe. Ogni parte di ciascun argomento può ulteriormente essere collegata a parti, ad esempio i sotto-argomenti delle cellule possono essere associati alle parti della testa: occhi, naso, bocca, ecc.

    Due: crea una serie di domande sugli argomenti da preparare, o prendile da esercitazioni del libro di testo. Estrai una domanda a caso e cerca di trovare rapidamente a quale parte di programma appartiene, usando eventualmente la strategia Uno, ovvero capire se una domanda riguarda la “testa”, il “torace” o le “ginocchia” dell’argomento. Ripeti la cosa per più domande estratte a caso, in modo da abituarti a trovare agevolmente dove si trova la risposta.

  • Psicologia per cambiare la vita

    La Acceptance & Committment Therapy (ACT) è uno strumento psicologico che interessa la persona nella sua interezza. Tutti sperimentiamo emozioni, sia forti che moderate, e quel particolare tipo di emozione che è l’umore; tutti abbiamo continuamente dei pensieri, in forma di parole, immagini, ricordi e progetti; abbiamo anche certe idee sulle cose che hanno valore, sul genere di persona che vorremmo essere, e altri aspetti ancora. E tutti siamo capaci di accorgerci di tutto quello che accade nel mondo esterno, e anche, soprattutto, nella nostra mente.

    L’ACT agisce con un movimento flessibile e continuo su tutte queste sfaccettature della persona, sviluppando maggiore consapevolezza di sé, maggiore libertà emotiva, e maggiore capacità di mettere a fuoco i propri valori e mete, e di agire per realizzarli.

    La ACT è basata non solo sulla mindfulness, ma sul felice incontro con la Contextual psychology e la Relational Frame Theory. Per approfondire cosa sia ACT, questo link punta a un ottimo e chiaro articolo di Pietro Spagnulo, pioniere della ACT in Italia. In esso, tra l’altro, Spagnulo scrive:

    “Come lascia correttamente supporre il nome, l’Acceptance and Commitment Therapy si basa su due pilastri fondamentali: accettazione (acceptance) cioè apprendere ad accogliere, osservare la realtà interna invece di negarla, evitarla o respingerla, e impegno (commitment) cioè agire nel mondo reale in linea con i propri valori ed obiettivi personali, invece di perdersi nell’inazione, in comportamenti impulsivi o nell’evitamento.  L’ACT utilizza l’analisi funzionale, la mindfulness e fa massiccio ricorso a tecniche dette di defusione.” (leggi tutto l’articolo di Pietro Spagnulo)

  • Di cosa parliamo quando parliamo di Educazione Sessuale

    Tutti, favorevoli e contrari all’educazione sessuale nelle scuole, sembrano sapere con assoluta certezza di cosa si stia parlando, ma senza mai definirlo con sufficiente chiarezza. Sarà perché provengo da una formazione molto attenta agli aspetti relativistico-antropologici che vanno tenuti presente quando si affronta tutto ciò che è culturale, ma conservo la netta sensazione che in verità non si sappia proprio cosa sia l’educazione sessuale, e anche laddove se ne diano descrizioni, esse siano alternativamente vaghe e generiche, o viceversa centrate su un nucleo valoriale forte inevitabilmente destinato a dividere tra chi “crede” e chi non crede. Vediamo tre esempi:

    1. L’educazione sessuale persegue il fine di fornire ai giovani conoscenze, competenze, atteggiamenti e valori di cui hanno bisogno per determinare la propria sessualità e goderne – fisicamente ed emotivamente, individualmente e nelle relazioni. Considera la “sessualità” in modo olistico e nel contesto dello sviluppo affettivo e sociale. Riconosce che la sola informazione non è sufficiente. È necessario offrire ai giovani l’opportunità di acquisire life skills essenziali e di sviluppare atteggiamenti e valori positivi. (International Planned Parenthood Federation (IPPF) 2006)

    2. È definito Educazione Sessuale un approccio, adeguato all’età e alla cultura, nell’insegnamento riguardante il sesso e le relazioni attraverso la trasmissione di informazioni scientificamente corrette, realistiche e non giudicanti. L’educazione Sessuale offre, per molti aspetti della sessualità, l’opportunità sia di esplorare i propri valori e atteggiamenti, sia di sviluppare le competenze decisionali, le competenze comunicative e le competenze necessarie per la riduzione dei rischi.” (UNESCO 2009).

    3. Obiettivo e meta dell’educazione sessuale è lo sviluppo di una sessualità ordinata e matura in senso psicologico, etico e spirituale. Questa visione personalistica dell’educazione sessuale riceve maggior luce e consistenza se inserita nella concezione cristiana dell’uomo e del suo destino. […] Se l’educazione sessuale è solo un aspetto dell’educazione integrale della persona, essa implica di necessità il riferimento a una concezione dell’uomo e cioè a una “antropologia”. (Chiesa Cattolica, 1980)

    Le definizioni 1 e 2, per vari aspetti simili ma non sovrapponibili, sono un buon esempio di generica vaghezza, unita ad un approccio più fortemente informativo e scientista nella seconda. La terza è un esempio ovvio di centratura su un nucleo valoriale (e non solo) assai forte. Di essa va sottolineata la grande onestà del riconoscere la ineludibile inscrizione di qualsivoglia modello di Educazione Sessuale in una visione più ampia dell’essere umano e delle sue manifestazioni, che la pone un gradino di saggezza sopra ogni ingenua aspirazione alla “neutralità”. Tornerò su questo punto più oltre.

    Assai spesso si sente invocare qualche forma di educazione sessuale sotto la spinta di eventi di cronaca, di comportamenti distruttivi, di fenomeni più o meno devianti; questa invocazione la connota più come un’ancora di salvezza contro il disorientamento e lo sgomento che come progetto organico e meditato. Ciò non significa che piani organici e ambiziosi non esistano: sulla base di linee guida stese dalla OMS si possono trovare in rete materiali molto dettagliati che aspirano a diventare uno standard per tutti i paesi occidentali, come ad esempio: Ufficio Regionale per l’Europa dell’OMS e BzgA – Standard per l’Educazione Sessuale in Europa.

    Vorrei allora provare a esaminare la questione da un punto di vista antropologico-culturale: credo di non essere lontano dal vero sostenendo che ogni comunità umana e ogni cultura che la permea e costituisce si misura con la consapevolezza (non necessariamente tematizzata a livello esplicito) di tre costanti delle quali voglio parlare senza preoccuparmi dell’una o dell’altra parola usata per definirli poiché quello che interessa qui è il fenomeno concreto sottostante e non la sua concettualizzazione. Vediamole:

    • c’è una potente forza attrattiva (comunque la vogliamo chiamare e definire) che porta gli individui (assai spesso, ma non necessariamente, di sesso diverso) a cercare reciprocamente il piacere sessuale.
    • la ricerca e la pratica del sesso tra due individui porta di norma alla formazione di una sorta di legame che in forme molto variabili tende a richiedere una certa esclusività e continuità. (Ci sono legami bidirezionali di tipo cronologico tra il raggiungimento del piacere in coppia e la presenza del legame. La forza attrattiva della ricerca del piacere sessuale mediato da un’altra persona può essere primaria e preesistente rispetto alla formazione del legame (oggi sappiamo che ciò avviene con la mediazione dell’ossitocina) ma le culture lavorano alacremente a modificare e regolamentare in diversi modi la successione cronologica di questi due aspetti.)
    • Appare chiara in ogni cultura la necessità di normare l’esercizio della sessualità la cui pratica indiscriminata e indifferenziata risulterebbe assai probabilmente distruttiva rispetto al legame più ampio che forma la collettività. Un altro motivo a favore della normazione dell’attività sessuale e dei legami affettivi adulti riguarda naturalmente la conseguenza probabile del coito ovvero la procreazione.

    L’antropologia culturale ci riporta molte diverse maniere di rispondere alle questioni poste dagli elementi costanti appena elencati; ma l’aspetto davvero costante che attraversa tutte queste diversità è il fatto che nessuna cultura pare abbia ignorato o lasciato al caso o a una fantomatica “spontaneità” ciò che riguarda la sessualità e il legame uomo-donna (ed eventualmente altre forme). Oltre alle differenze di contenuto tra una e l’altra risposta, ve ne sono di forma e estensione: alcune culture sono propense a normare tanto, definendo in modi dettagliati tempi, luoghi e regole per il corteggiamento, per la relazione, ecc., altre a normare meno, lasciando tra una regola e l’altra spazi e interstizi di libertà o di arbitrio, talvolta riconosciuti, talaltra confinati nel segreto.

    Guardata sotto questo punto di vista la cosiddetta educazione sessuale di cui tanto si parla nei Paesi occidentali altro non sarebbe che “una” risposta alle questioni poste dai tre elementi costanti suddetti. Nelle sue varie forme, essa sembra figlia della nostra società progressista, positivista un po’ scientista nonché democratica e razionalista che si è fatta avanti gradualmente nel corso del ventesimo secolo in occidente. Il frutto più tipico di questa cultura è la modalità ancora oggi praticata (a dispetto delle dichiarazioni di intenti come quello della IPPF) che sostiene un approccio essenzialmente (anche se non unicamente) informativo rispetto alle questioni della sessualità e aree limitrofe della relazione umana. Una versione più antica, (molto in voga negli anni ‘70) prevedeva quasi una mera informazione anatomo-oleodinamica (mi si consenta l’ironia) unita alla storica educazione demografica della pionieristica organizzazione italiana AIED, comunque tuttora operante sul nostro territorio. C’era in quell’approccio una aspirazione ingenua all’indipendenza da valori, ideologie o atteggiamenti preconcetti al fine di rendere libere le persone di vivere la sessualità come desideravano. L’ingenuità non era solo la presunta autonomia da valori e schemi interpretativi ma anche e forse soprattutto la presunzione che vi fosse un modo spontaneo e naturale (in qualche misura inscritto nella personalità dell’individuo) di vivere la sessualità, quasi potesse venir depurato da ogni altra influenza esterna.

    Il problema della presunta Neutralità è complesso ma provo a sintetizzarlo in due gruppi di enunciati che sono assiomatici nei rispettivi ambiti, ossia le definizioni 1, 2 e 3:

    1. Io ti informo con nozioni scientificamente corrette e “non di parte”; poi tu sceglierai come muoverti nel campo della sessualità, e compirai tali scelte usando come criteri…. cosa? Questo non viene definito, ma fa riferimento a un qualcosa di “altro” in cui compare la parola “valori”: in (1) essi vanno “sviluppati”, lasciando intendere che l’individuo vi giochi un ruolo come costruttore-ricercatore; in (2) i valori vanno “esplorati”, lasciando intendere che essi entrino a far parte del sapere della persona per altre vie che non siano l’Educazione Sessuale stessa. Si sottintende però comunque che i valori sono entità relativistiche, mentre la Educazione Sessuale non è relativa ma in qualche modo neutra e assoluta, o quantomeno di un livello logico superiore. Per quanto non venga esplicitato, in filigrana sembra di poter leggere l’idea che (a) ogni persona porti in sé un embrione molto soggettivo di “buona sessualità” che è suo diritto (e dovere, in un certo senso) cercare e/o sviluppare, e (b) che nel campo socio-culturale esistano o siano reperibili valori “pronti all’uso” (chiamiamoli metaforicamente “proteine”) o eventualmente gli amminoacidi necessari alla loro sintesi.

    2. Io ti trasmetto una visione dell’uomo e all’interno di essa una visione della sessualità e ti trasmetto quindi consapevolmente ed esplicitamente valori e norme etiche. Ti preciso anche che non esiste una educazione sessuale neutra, ma solo una educazione fortemente collocata dentro una antropologia e un orizzonte valoriale. Sottintendo però che i valori non sono entità relativistiche ma degli assoluti: le norme che regolano i costumi e i comportamenti sessuali sono naturali e primarie, espressione della struttura dell’uomo. (quest’ultima frase in corsivo è tratta dal documento della Chiesa Cattolica del 1980). Simmetricamente, qui appare in filigrana l’idea che il campo socio-culturale sia, in ambito valoriale, un deserto o una palude tossica, e che solo il magistero della Chiesa possa salvare da ciò.

    Dovrebbe saltare all’occhio una contraddizione che accomuna 1 e 2 sia pur su concetti e con forme differenti: entrambe si servono della coppia concettuale “relativistico vs assoluto” tentando di stare da una parte sola, ma finendo per ricadere dall’altra, cosicché il concetto che si vuol cacciare dalla porta rientra dalla finestra. Non è mia intenzione portare avanti un confronto tra visioni così incompatibili (nei contenuti) ma simili (nella forma concettuale e nelle contraddizioni interne), quanto piuttosto andare alla ricerca di una risposta al titolo dell’articolo, percorso rispetto al quale finora la disamina delle varie definizioni ci ha aiutato, ma che è giunto il momento di superare. A ben vedere, infatti, le definizioni fin qui analizzate finiscono con l’essere complementari rispetto alla visione antropologica. Secondo quest’ultima ci sono due questioni, una “globale” (il problema dell’impulso sessuale e tutto quello che ne consegue) e l’altra “locale” (quale risposta specifica ha elaborato questa specifica cultura per amministrare il problema stesso). Le definizioni IPPF e UNESCO descrivono questa mappa ma si guardano bene dal prendere parte alla soluzione (necessariamente locale), la Chiesa invece prende posizione localmente e fornisce una chiara risposta, non facendosi carico ovviamente di tutta la complessità che resta fuori dal campo locale. Potrà essere criticabile o da aggiornare, ma è senza dubbio strutturalmente una risposta nei termini previsti proprio da quella antropologia culturale relativistica che la Chiesa condanna. Ed è anche, volendo, una risposta alla nostra domanda. Soddisfacente o no che sia (per me non lo è assolutamente) essa è comunque una risposta.

    E noi, come e dove la cerchiamo, una risposta soddisfacente? Se stiamo cercando una risposta globale, dovremmo tornare alla realtà e renderci conto che una risposta globale non v’è e non può esserci (non, almeno, fin quando l’intero mondo non sarà conquistato dal Califfato Islamico e assoggettato con le armi alla sua morale!). Si potrebbe inoltre obiettare che perfino le risposte locali più affermate non sono una rappresentazione dell’esistente (ci mancherebbe!) ma indicano un orizzonte etico che, sia pur con un certo grado di pudore e segretezza, ammette scostamenti dal “mainstream”. Tuttavia credo non si ricavi nulla ricadendo nella datatissima contrapposizione tra “verità” e “ipocrisia borghese” così forte nella cultura post sessantottina. Credo che la nostra ricerca debba procedere per gradi senza cadere in ulteriori dicotomie.

    Prima di tutto occorre riprendere una concettualizzazione peraltro ben nota, ma il cui significato temo venga sottovalutato, tra Educazione Sessuale formale (o intenzionale) e informale. Finora abbiamo parlato della prima, ovvero di interventi pensati e strutturati. Nessuno osa negare che vi siano altre fonti: prima di tutto gli esempi reali che il bambino e poi l’adolescente sperimenta e vede intorno a sé, poi le narrazioni cinematografiche (in senso lato, anche televisive, telematiche (web)… ecc.), dalle quali si impara come si seduce, come ci si innamora, come ci si prende e come ci si lascia, come si piace, come si desidera… ecc. Quando l’educazione sessuale formale arriva, entra in un ambito dove i media hanno già stratificato molte rappresentazioni, particolarmente resistenti e solide proprio perché acquisite in modo lento, ripetitivo, semi-conscio e non pensato. Incidere su simili costellazioni di rappresentazioni è a mio parere una impresa assai ardua, mentre, al contrario, esse sono state in grado di erodere apparati morali granitici generando evoluzioni del costume impensabili prima dell’avvento dei mass media.

    L’Educazione Sessuale informale è implicita, non intenzionale e inscritta nei comportamenti praticati nella collettività; è presente in tutte le culture, ma sembra che sia assai pervasiva e articolata nella nostra cultura così intrisa di comunicazioni di massa che ad ogni istante propongono immagini di corpi, di relazioni, di storie di amore, seduzione e sesso. Inoltre se in culture locali più ridotte e più semplici chi vi appartiene riscontra comportamenti sostanzialmente coerenti gli uni con gli altri, nel nostro contesto occidentale industrializzato e massmediale chiunque volesse trarre qualche costanza e qualche coerenza dall’insieme polifonico e vasto di condotte differenti troverebbe un’impresa davvero ardua se non impossibile. Siamo davvero una società nella quale convivono una accanto all’altra morali sessuali, condotte e rappresentazioni della relazione stridentemente diverse tra di loro. Le definizioni UNESCO e IPPF sembrano puntare sul fatto che fornendo informazioni di fondo corrette i nuovi adolescenti siano in grado di farsi largo in questa polifonia rintracciando valori a loro consoni. Temo proprio si tratti di una pia illusione.

    Il primo vero passo da compiere credo sia ammettere che non si dà alcuna educazione sessuale in qualunque accezione senza fare riferimento a una visione dell’uomo. Fortunatamente disponiamo oggi, all’inizio del terzo millennio, di notevoli conoscenze scientifiche e antropologiche che possono aiutarci a non cadere nei due classici estremi: da una parte la visione apocalittica che suppone che l’essere umano, se non viene incasellato dentro una norma esterna dichiarata e cogente, finisce nell’anomia, nell’anarchia, nel disordine, nell’entropia, e in definitiva nella mera feroce distruttività. Ne è un triste esempio l’apologo distopico “Il signore delle mosche” di Goldring.

    Dall’altro lato una visione pacificata e New Age che vede l’essere umano come portatore di una sorta di verità assoluta interna, quasi un talento, che deve essere scoperta e estrinsecata e che è in grado di ricreare armonia, scelte e azioni corrette e quant’altro. Credo che appaia abbastanza ovvio che alla prima visione si attaglia meglio una impostazione come quella della Chiesa cattolica e alla seconda meglio quelle di UNESCO e IPPF. Se c’è una cosa che lo studio integrato dell’uomo operato da neuroscienze, etologia umana, psicologia e altre discipline limitrofe ci ha detto, è che entrambe le previsioni poc’anzi citate sono clamorosamente false. Semplificando molto potremmo dire che le discipline che studiano l’essere umano ce lo descrivono in una condizione intermedia tra i due estremi ovvero dotato impulsi, tutt’altro che tabula rasa, ma anche animato dal bisogno e dalla capacità di interpretare e categorizzare la realtà, di individuare percorsi dotati di senso e in qualche modo normativi; esposto tuttavia al rischio di una carenza di rappresentazioni e norme che riescano a dare un costrutto a una realtà caotica. Un simile stato di cose ci spiega come sia possibile nella società liquida di oggi che un numero ingente e importante di persone riesca comunque a gestire in modo sufficientemente ordinato la propria sessualità in mancanza di un orizzonte etico vincolante e forte. A fianco di ciò non ci stupisce la presenza di crescenti manifestazioni di disregolazione emotiva e degli impulsi come una delle cifre più pregnanti del nostro tempo. Se è ammissibile tentare una sintesi molto ampia credo si possa dire che le nostre società sono contraddistinte simultaneamente da un allergia diffusa verso regole nette e divieti, e da una ricerca costante di una nuova legge che venga a salvarci dalla confusione e dall’anomia, come Massimo Recalcati ci descrive nel suo Complesso di Telemaco:

    “Ciascuno rivendica il proprio diritto alla felicità come diritto di godere senza intrusioni di sorta da parte dell’Altro. […] Edipo non sa essere figlio. Egli vorrebbe negare ogni forma di dipendenza e di debito simbolico nei confronti dell’Altro. […] L’attesa di Telemaco non è attesa di una Legge anonima, non è attesa dell’applicazione routinaria della Legge del Codice. Egli attende il ritorno di un padre. […] le giovani generazioni di oggi assomigliano più a Telemaco che a Edipo. Esse domandano che qualcosa faccia da padre, che qualcosa torni dal mare, domandano una Legge che possa riportare un nuovo ordine e un nuovo orizzonte del mondo.” Domandano un Padre come “colui che offre in eredità il senso della Legge non come castigo ma come possibilità della libertà, come fondamento del desiderio.”

    Cosa si può fare allora in questo ambito per costruire un’idea sensata di educazione sessuale? Io credo si debba partire dalla raccolta dei problemi con i quali si confrontano i nuovi adolescenti ovvero quelle questioni aggiuntive che definiscono in modo più specifico il problema globale descritto dai nostri tre elementi costanti. Raccoglierli tutti, classificarli ed unirli in questioni di fondo sarebbe probabilmente un lavoro immane da condurre da parte di equipe formate da clinici, sociologi, educatori e altre figure a contatto con questa fascia di età.

    Provo a stilare un elenco inevitabilmente parziale e approssimativo che spero possa costituire un invito ad altri a proseguire e ampliare l’opera. Ecco dunque, in base alla mia esperienza di clinico, i problemi che i nuovi adolescenti affrontano (per lo più senza risolverli, ammesso che una soluzione vi sia).

    • Il legame affettivo è spesso temuto come una malattia che sarebbe meglio non contrarre; una volta che esso sia presente, è sbilanciato verso il polo dell’ansia di separazione, dell’angoscia della perdita, che si unisce a fantasie altrettanto estreme di autosufficienza. In mezzo, direi stritolato, sta il desiderio, il grande assente.
    • Il corpo non è luogo di sensazioni e di piacere, ma è soggetto a un feroce voyeurismo finalizzato a un giudizio severo. O il corpo è avvertito come bello, e da ostentare, o non è. Se si prende la prima opzione l’esibizione delle forme è spesso ipertrofica e imbarazzante.
    • Lo statuto dell’attività sessuale è piuttosto indefinito e plurimo: bene di consumo, godimento quasi solipsistico con il corpo dell’altro ma non con l’altro, forma materialistica e meno impegnativa di intimità senza legame.
    • Si riscontra assai di frequente il vissuto (e/o la paura) di non essere amati; questo accompagna la ricerca affannosa di amore e riconoscimento talvolta nella delirante aspirazione a ottenere tutto ciò al di fuori di un legame affettivo strutturato. D’altronde è davvero arduo sviluppare rapporti sociali reciprocamente impegnativi nel contesto socioculturale attuale (si veda ad esempio L. Gallino, Finanzcapitalismo, 2010)
    • Difficoltà rilevanti nella gestione della possessività che talvolta è indiscriminata e aggressiva, talaltra rifiutata come una malattia.
    • Viene assai spesso scambiato per verità rivelata l’assioma un po’ “New Age” che, partendo dal classico “va dove ti porta il cuore”, sottintende che nel cuore vi sia sempre una posizione chiara e preminente, priva di ambivalenze, e che essa vada scoperta, ascoltata e agita senza mediazioni. Un simile assioma porta a situazioni di blocco e di sofferenza ogniqualvolta l’ambivalenza e l’incertezza si presentano sulla scena.
    • È diffusissima la difficoltà a rapportarsi con i propri impulsi e le proprie emozioni, sospesi tra azione impulsiva e non pensata (acting out) e evitamento emozionale, in particolare delle emozioni sperimentate come negative. Da sottolineare il fatto che l’acting out più che tradurre in atto l’emozione persegue il fine (di fatto irraggiungibile) di eliminarla quando questa è avvertita come negativa. Il dolore psichico infatti è rappresentato come un veleno da eliminare, e come segnale di “problema da risolvere”. Lo stesso destino tocca alla tristezza, agli stati contemplativi e a qualunque altra condizione che non sia una sorta di stolida e maniacale euforia che rende comunicativi, socievoli, brillanti, spiritosi e attraenti.

    Questa sorta di elenco di problematiche diffuse dovrebbe far riflettere. Assai poche delle sue voci potrebbero giovarsi significativamente di approcci informativi: ci troviamo di fronte a difficoltà che sono in larghissima parte riconducibili a due ampie costellazioni di cause:

    • la cultura diffusa, le rappresentazioni egemoniche e predominanti del sé, dell’essere umano, della vita nelle nostre società a capitalismo finanziario maturo
    • le vicissitudini complessive riguardanti le dinamiche di attaccamento e i modelli interni (IWM) da esse derivanti.

    Sarebbe assai vasto e lungo esaminare in dettaglio queste due costellazioni di cause che portano gli adolescenti a vivere determinate difficoltà nella vita amorosa e sessuale. In questa sede appare cruciale osservare che si tratta, come anticipato poc’anzi, di cause sulle quali incide davvero poco l’approccio informativo; ci vogliono esperienze concrete, e tante, collocate anche nella primissima infanzia, ma non solo in quel periodo, e ci vogliono capacità di riflessione non banali e non scolastiche per guardare con sufficiente disincanto le rappresentazioni della nostra cultura in quanto rappresentazioni e non in quanto “realtà” o “evidenze”. E forse, fantasticando, occorrerebbe una riflessione su quali e quanti mezzi di comunicazione raggiungono la massa dei giovanissimi, plasmando le visioni diffuse di sessualità e amore e non solo, che vanno a costituire, insomma, una sorta di “antropologia” implicita, incorporata, “embedded” nella mole enorme di messaggi e narrazioni cui ciascuno di noi è esposto; si tratta quindi di una antropologia “nascosta” poiché si presenta sotto mentite spoglie.

    “E quindi?” potrebbe chiedersi chi ha eroicamente letto fin qui. Mi rendo conto che lo scenario appare scoraggiante: se il nostro fine è condurre il maggior numero di adolescenti verso una sessualità/affettività non scisse, integre, autentiche e portatrici di ricchezza interiore e relazionale (che non significa “assenza di dolore”!), dovremmo in realtà occuparci poco di educazione sessuale di massa nelle scuole, e assai di più di come è organizzata la nostra civiltà incapace di cura, e che genere di esperienze di abbandono e disamore infligge ai piccoli sotto falsi abiti di “esigenze lavorative”, e con quanti e quali narrazioni “tossiche” su cosa siano il sesso e l’amore riempiamo le loro povere menti. Dovremmo, insomma, occuparci molto di Educazione Sessuale Informale. Se invece ci preme di più sentirci anime belle che hanno prodigato sforzi educativi per le nuove generazioni, allora possiamo anche continuare a fare le stesse cose di sempre, qualche bel discorso di qualche esperto nelle classi e l’anima l’abbiamo salvata. Oppure, se uno proprio nelle classi ci vuole entrare ma cercando di far meglio? Alla luce di tutto quanto son venuto rimuginando fin qui, direi che per provare a realizzare un contributo a una educazione sessuale formale all’altezza della sfida, occorrono molti elementi che provo a elencare.

    • Le informazioni (psicologiche, fisiche, mediche, ecc) si portano con sé ma vanno usate solo al bisogno e con moderazione.
    • Il gruppo dei destinatari degli interventi dovrebbe essere piccolo (5/10 ragazzi) e con un discreto grado di confidenza e fiducia interna.
    • Iniziare con un (quasi)-focus-group, facendo emergere vissuti, questioni, nodi irrisolti, nonché i tentativi (anche fallimentari) di venirne a capo.
    • Entrare in sintonia con quanto emerge, vibrare insieme, insomma, dare l’esempio sul fatto che la sintonia emotiva esiste, che può essere praticata, che non è un sogno. Che è possibile essere compresi. In questa fase vanno usate grandi dosi di empatia: l’empatia non è tutto e non è la medicina per ogni male, ma è l’eccipiente necessario e imprescindibile per ogni altro mezzo.
    • Quando emergono vicende venate di dolore, occorre con grande tatto restare su quel dolore per mostrare che, se non se ne ha paura, il dolore può essere tollerato e vissuto, che si può stare a contatto con esso quanto basta a viverne la parte che ci tocca in sorte. Che il dolore, per dirla con gli psicoanalisti, non va evacuato ma vissuto e metabolizzato.
    • Quando nei problemi sono implicate rappresentazioni di origine culturale, si deve operare al fine di separare le rappresentazioni dall’esperienza interna, valorizzando soprattutto la seconda come sorgente primaria. Far emergere lo stato emotivo sottostante, e le spinte all’azione che suscita. Isolarne le componenti “narrative”. Un esempio banale: «dici di essere innamorata. D’accordo, ma come te ne accorgi? Cosa accade dentro di te che ti fa dire “sono innamorata”?» Lì si ascoltano risposte più interessanti, del tipo «Lo penso spesso», «Sento il bisogno di stargli vicino», «Quando è lontano non mi sento bene», ecc. Spesso (per fortuna non sempre!) cose del genere vengono elencate come sintomi di una brutta malattia, e allora occorre lavorare duro per trasmettere l’idea che è “soltanto” quell’insieme di reazioni molto umane che ci siamo abituati a chiamare amore. Oppure ancora: «Credevo fosse amore, invece era solo sesso». Anziché seguire la persona e gli altri interlocutori come se avesse descritto obiettivamente una situazione, occorre invece incalzare con domande intriganti che facciano emergere le narrazioni: «Ah, e come ti sei accorto della differenza?» «E come sarebbero andate le cose se fosse stato amore?» e tante, tante altre domande per aiutare le persone a focalizzarsi maggiormente sulla esperienza primaria, e a considerare parole, rappresentazioni e narrazioni come strumenti magari utili ma distinti dall’esperienza.
    • Chi entra in classe dovrebbe fornire in diretta un esempio di “sicurezza” inteso anche come sicurezza dell’attaccamento, ovvero sentirsi a proprio agio nel trattare le più diverse e talvolta toccanti emozioni, gli argomenti più scabrosi, sentirsi a proprio agio in ogni genere di descrizione di legami e di paura dei legami, non intimorito dalla dipendenza affettiva, cose che sa fare naturalmente una persona che i teorici dell’attaccamento chiamerebbero “Secure/Autonomous”.

    Tutto questo elenco dovrebbe avere come risultato la salvezza del desiderio, ovvero, parafrasando Recalcati, trasformare e salvare da sé stesso un adolescente “senza desiderio, plastificato, apatico, perso nel mondo fagico degli oggetti, insofferente a ogni frustrazione”. “Come avviene la trasmissione del desiderio da una generazione all’altra? Attraverso una testimonianza incarnata di come si può vivere la vita con desiderio.”

    Occorre dunque tantissima modestia e umiltà, tanta presenza, lo sforzo di esserci, per farsi strada in mezzo a solide e spesse stratificazioni di rappresentazioni create dall’educazione sessuale/affettiva implicita che plasma gli individui assai prima e profondamente di quanto non possano fare le cosiddette informazioni. Dopotutto l’individuo è formato nella sua interezza da una immane pluralità di istanze, dall’espressione genica alle esperienze lungo l’arco di vita, le relazioni, i dolori e le gioie… l’educazione sessuale formale è una goccia in questo mare, ma se dobbiamo farla, almeno facciamola dopo una riflessione all’altezza del compito. E spero che, dopotutto, si possa reperire in queste righe un barlume di risposta a chi ci chiede di cosa parliamo quando parliamo di Educazione sessuale.

    Quest’opera di Franco Nanni è stata rilasciata con licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Condividi allo stesso modo 3.0 Italia.

  • Io dallo psicologo? Non sono mica matto!

    Io dallo psicologo? Non sono mica matto!

    Gli psicologi sono quei professionisti da cui si mandano sempre gli altri? Forse perché lo psicologo è più… “medico”,  e porta con sé un alone di malattia e di anormalità che non piace? Perché si temono percorsi lunghissimi rivoltando la propria mente e la propria vita come un calzino? Perché non ci si sente liberi di gestire il percorso come si vuole e si sente? Beh, sono semplicemente idee piuttosto antiquate che riguardano professionisti di molto tempo fa e nemmeno tutti. Al giorno d’oggi le cose funzionano davvero in maniera diversa e siamo tutti ben consapevoli delle esigenze e delle difficoltà della maggior parte delle persone.

    La sofferenza psichica oggi ha assunto ormai lo status di “anormalità”, se non anche di patologia, comunque di anomalia da estirpare. In realtà le cose stanno diversamente, come notano Steven C. Hayes e colleghi in ACT (Raffaello Cortina), «Se sommiamo tutte le persone che sono o sono state depresse, tossicodipendenti, ansiose, arrabbiate, autodistruttive, alienate, preoccupate, compulsive, lavoro-dipendenti, insicure, terribilmente timide, divorziate, evitanti l’intimità e stressate, siamo costretti a giungere a una conclusione sorprendente, vale a dire che la sofferenza psicologica è una caratteristica fondamentale della vita umana.» La cosa triste è che coloro che non partono da questo presupposto sono condannati a soffrire di più.

    Così…  Adulto, genitore, coppia, adolescente… se sei alla ricerca di risorse e strumenti per uscire dai gorghi dei pensieri rigidi, per guadagnare flessibilità, incontrare e vivere le emozioni quali che siano, liberarti dalla paura, dalla colpa e dalla inadeguatezza, posso aiutarti con ACT e Mindfulness sul piano della cura, della prevenzione, dello sviluppo delle tue potenzialità.

  • Mindfulness & ACT

    Per iniziare a farsi una idea di cosa significhi “Mindfulness” inizio col dare la parola a Marco Tosi, didatta e trainer IAM (Istituto per le Applicazioni della Mindfulness, Milano), tratta da un articolo più ampio sul tema:

    Il termine “Mindfulness” si riferisce ad un’attenzione consapevole, intenzionale e non giudicante verso la propria esperienza, nel momento in cui essa viene vissuta. Accettare l’esperienza che avviene proprio in un determinato momento, avere un atteggiamento compassionevole verso la sofferenza, propria e altrui, avere una capacità di auto osservazione non giudicante sono caratteristiche Mindfulness. La pratica della Mindfulness si propone di aiutare a sostituire nella vita quotidiana i comportamenti reattivi, automatici e distruttivi con scelte consapevoli e funzionali. La Mindfulness consente di apprendere a riconoscere le nostre emozioni e i nostri pensieri, accogliendoli così come sono, sospendendo ogni giudizio con un atteggiamento di accettazione.

    Tosi ci aiuta anche a capire cosa non è: Non è una terapia, sebbene sia in grado di curare. Non è una tecnica di rilassamento, nonostante provoca il rilassamento. La Mindfulness, al contrario, ci tiene ben svegli e attenti a “quello che c’è”. Non implica una condizione mistica, perché non vuole suscitare nulla né giungere ad un obbiettivo, ma semplicemente rappresenta un invito a essere presenti nel presente. Non fa parte di una religione, anche se molte religioni utilizzano tecniche di meditazione.

    La Mindfulness quindi non è una terapia in sé, ma è un efficace complemento ad altre terapie, testata sperimentalmente. Una tabella riassume le situazioni cliniche per cui esistono in letteratura studi di efficacia (adattato graficamente da Santorelli & Kabat-Zinn, 2013).

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    La mindfulness quindi non dovrebbe essere presentata come una pratica per produrre felicità e/o benessere, e ancora meno come un antidoto efficace e pronto all’uso contro qualunque forma di infelicità (incluso il versante medicalizzato come la depressione), e ciò per vari motivi: prima di tutto per rispettare le affermazioni dei suoi fondatori e lo spirito con il quale hanno inteso il loro lavoro. Poi perché ci manca completamente una definizione univoca di felicità che sia credibile.  Infine perché qualunque statuto vogliamo dare a felicità e infelicità, queste condizioni sono necessariamente il risultato di processi sociali, culturali, interpersonali, linguistici, economici e organizzativi che nessuna pratica individuale svolta sul tappetino da yoga o qualunque altro supporto potrà mai surrogare nemmeno lontanamente. A ben guardare in realtà sia le antiche filosofie che le neuroscienze convergono, da direzioni abissalmente diverse, verso un unico punto di arrivo: la felicità, perfino se la intendiamo nelle sue accezioni organiche in termini di neurotrasmettitori e onde cerebrali, nasce da processi intimamente umani come il legame sociale, l’attaccamento, l’amore, la sessualità, il dialogo, il riconoscimento reciproco (solo per citarne alcune, alla rinfusa, ma indubbiamente tra le più importanti). Si tratta comunque di processi e non di “ricette” di qualunque tipo.

    Una buona pratica di Mindfulness, semmai, ci mette in grado di affrontare saggiamente  quella quota di “male” che appartiene alla condizione umana: i nostri limiti, le malattie, la morte, la perdita, il non raggiungere ciò che desideriamo, il sopportare ciò che non amiamo o non ci piace. Ci mette in grado di rispondere con intelligenza  a queste e ad altre sfide della vita, anzichè reagire impulsivamente in modo automatico. È essenzialmente questo che abbassa il livello di stress: modificare i processi mentali reattivi e avversivi  arricchendo il proprio quoziente di flessibilità psichica.

    In quanti e quali modi allora può essere usata la parola Mindfulness per indicare cosa? Non pretendo certo di essere esaustivo, ma spero di fare almeno chiarezza in modo semplice:

    • nasce, grazie al medico USA J. Kabat-Zinn, a partire dal 1979 all’Università della Massachusetts Medical School, come pratica per la riduzione dello stress in molteplici ambiti, oggi diffusi nella forma del protocollo MBSR (Mindfulness-Based Stress Reduction)
    • Grazie ai numerosissimi studi svolti in più di tre decenni, la Mindfulness si arricchisce anche su un piano più teorico, con una visione progressivamente più organica del funzionamento della mente umana, della sofferenza e delle sue cause, nonché di come gestirla in modo efficace.
    • Gradualmente i concetti e alcune delle pratiche della Mindfulness sono penetrati nella terapia psicologica, generando più in specifico la MBCT (Mindfulness-Based Cognitive Therapy), la DBT (Dialectical Behaviour Therapy) e la ACT (Acceptance and Commitment Therapy)

    La ACT (pronunciata non come acronimo, ma come il verbo inglese (to) act (agire), è una terapia basata non solo sulla mindfulness, ma sul felice incontro con la Contextual psychology e la Relational Frame Theory. Per approfondire cosa sia ACT, questo link punta a un ottimo e chiaro articolo di Pietro Spagnulo, pioniere della ACT in Italia. In esso, tra l’altro, Spagnulo scrive:

    “Come lascia correttamente supporre il nome, l’Acceptance and Commitment Therapy si basa su due pilastri fondamentali: accettazione (acceptance) cioè apprendere ad accogliere, osservare la realtà interna invece di negarla, evitarla o respingerla, e impegno (commitment) cioè agire nel mondo reale in linea con i propri valori ed obiettivi personali, invece di perdersi nell’inazione, in comportamenti impulsivi o nell’evitamento.  L’ACT utilizza l’analisi funzionale, la mindfulness e fa massiccio ricorso a tecniche dette di defusione.” (leggi tutto l’articolo di Pietro Spagnulo)

    Qui voglio sottolineare soprattutto un punto che mi sta a cuore: l’ACT delinea con molta chiarezza l’origine non solo personale, ma anche sociale e culturale (per tramite delle reti relazionali linguistiche) di molte sofferenze umane che la stessa ACT resiste a medicalizzare come patologie tout court. In ogni testo che si rispetti basato su questo approccio si insiste molto proprio sul ruolo patogeno della pressione (personale ma anche socialmente sollecitata) a evitare le emozioni negative (il cosiddetto Evitamento Esperienziale) nonché a viverle a seconda dei casi come colpa, come difetto o come natura essenziale del proprio sé. Ecco perché ACT mette al centro dei suoi processi la “defusione”, un termine complesso che si riferisce essenzialmente a una serie di capacità di non identificarsi coi propri contenuti mentali.

    Se si legge attentamente la struttura essenziale di ACT essa appare come la più straordinaria radicale e lucida critica distruttiva di ogni forma di “pensiero positivo” e di perseguimento del benessere e/o della felicità. E questo non certo perché ACT non miri a recare vero sollievo, tutt’altro! Solo che la via del “pensiero positivo” conferma implicitamente un principio che crea più problemi di quanti non ne risolva:  si spingono le persone a temere i propri pensieri quando non sono adeguati, ossia positivi, costruttivi, ecc.  E a ritenere che  i pensieri negativi siano temibili e quindi da evitarsi, sopprimere, scacciare. Questo è esattamente uno dei componenti base dell’Evitamento Esperienziale, considerato un fattore chiave in numerosissimi processi patogeni nei fenomeni di ansia  e di depressione.

    A scanso di equivoci, la ACT  non “parteggia” per i pensieri negativi, ci mancherebbe altro, ma semplicemente considera (assieme alla Mindfulness)  l’evitamento di eventi interni (pensieri, emozioni, ecc.) come una parte del problema e non della soluzione, rispetto alla sofferenza umana.
    by-nc-saQuest’opera di Franco Nanni è stata rilasciata con licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Condividi allo stesso modo 3.0 Italia.

  • Svegli di notte: paura?

    Svegli di notte: paura?

    «A volte, se non dormo, o mi sveglio durante la notte, mi preoccupo. Allora prendo lo smartphone e mi distraggo un po’».

    Quello di non dormire, di dover trascorrere la notte o parte di essa da svegli è un timore piuttosto diffuso, sia tra i teenager che tra gli adulti, e altrettanto diffuso è il ricorso al telefono per passare il tempo e, magari, sperare di riassopirsi.

    Chi non l’ha mai vissuta tende a pensare, erroneamente, che questa paura sia irragionevole. In verità essa ha invece qualche ragione di esistere, che ora proverò a sintetizzare. Dunque la paura di non dormire ha un senso, ma conoscendola possiamo certamente ridurne l’impatto.

    Cominciamo da lontano: tu, lettore, fermati qualche istante, e fai mente locale. Dove sei, chi e che cosa ti circonda, cosa stavi facendo prima e cosa farai tra poco. Poi allarga la visuale alla persona che sei, fisicamente, mentalmente, la tua storia, i tuoi affetti, ricordi e desideri… fatto? È stato  facile o difficile? Hai mai pensato quante operazioni e quante informazioni la tua mente deve organizzare per creare l’effetto di “realtà”, comprendente il mondo circostante, e la tua persona? Quello che chiamiamo “realtà” è in verità il prodotto di un lavorìo costante della mente per catalogare, interpretare, connettere e organizzare accozzaglie di “fatti” in  qualcosa di coerente. 

    Si tratta di un processo naturale e spontaneo, quasi non ci si accorge che accada, tuttavia è necessario, e, talvolta, se qualcosa va storto, compaiono distorsioni e aberrazioni come vediamo nei malati di Alzheimer nel progredire della patologia. Una parte di questo lavoro avviene di continuo, istante dopo istante, ma sembra accertato che durante il sonno in fase R.E.M. (quella in cui si sogna) il cervello compia importanti operazioni di riorganizzazione delle esperienze e degli apprendimenti precedenti. Ora immagina di dover riorganizzare qualcosa come… una grossa cassettiera piena di indumenti, oppure il cambio stagionale degli armadi. Come appaiono le cose durante queste operazioni? Probabilmente confuse, appoggiate qua e là, insomma: disorganizzate. Quando ti svegli di notte, può capitare che lo scenario interno alla tua mente sia analogo: i fatti, le esperienze, tutto ciò che fa di te la persona che sei… tutto questo è sparso nella mente e disorganizzato. In più è buio, gli altri dormono e non si relazionano a te, la città è silenziosa, insomma tutto concorre a spaventare, inquietare, perfino a causare angoscia. Ed ecco il disperato desiderio di dormire per non dover sopportare da soli una mente disorganizzata. Alcune persone tollerano bene la cosa, e non ci fanno tanto caso, ma altre, con tendenza all’ansia, o in fasi di vita con vulnerabilità, o stati depressivi… si angustiano molto. Questa angustia è già di per sé causa possibile di insonnia.

    Ricorrere allo smartphone per ritrovare un senso rassicurante di “realtà” è davvero una buona pratica? Tre recenti ricerche, che coprono una vasta fascia di età dai 13 anni a tutta l’età adulta, dicono di no! Da un lato confermano che vi è correlazione tra maggior uso di smartphone, specie di notte, e sintomi di ansia e depressione. Dall’altro confermano anche che tale maggior uso è correlato con disturbi del sonno, ma che tuttavia è lo stesso abuso di smartphone a provocare ulteriori i disturbi del sonno. La luce a tono blu degli schermi riduce infatti la secrezione di melatonina e disturba i ritmi e la qualità del sonno.

    Che fare allora? Vediamo alcuni punti chiave per “sopravvivere” alla notte.

    • Date fiducia alla vostra mente. Permettetevi di assistere con un minimo di distacco e magari di curiosità ai lavori in corso che possono presentarsi di notte dopo un risveglio inatteso. Abbiate fiducia, domani tutto tornerà a posto e in ordine, anche se ora fatti, percezioni ed esperienze sono tutto sottosopra. Provate a considerare normale che i contenuti mentali o le esperienze del momento, come un rumore o un’ombra, appaiano temporaneamente più inquietanti di quanto non siano di giorno.
    • Resistete alla tentazione di afferrare lo smartphone. Restate al buio, ascoltate i suoni intorno a voi, specie quelli “amici”. Ponete attenzione al vostro corpo, al vostro respiro. Provate proprio a concentrare l’attenzione sul respiro, sull’andare e venire dell’aria nei vostri polmoni. Se lo farete abbastanza a lungo, il sonno tornerà.
    • Se già non lo siete, è il momento di diventare più esperti nelle pratiche essenziali della Mindfulness, che potrete utilizzare anche nelle ore notturne per diventare dei “buoni navigatori della notte”.

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  • Amore di coppia: che stile hai?

    Amore di coppia: che stile hai?

    Parliamo di questo tema anche in quattro bellissimi video.

    Sono forse davvero poche le persone, almeno nella nostra cultura occidentale, che non si sono mai interrogate sulle determinanti che portano tanti individui a vivere relazioni sentimentali che paiono ripetere un copione ricorrente, felice o infelice che sia; nel secondo caso, per di più, pare anche impossibile uscirne, quantomeno con sforzi coscienti. Sono passati più di sessant’anni da quando John Bowlby e Mary Ainsworth diedero inizio a quella serie di ricerche e riflessioni che presero presto il nome di Teoria dell’Attaccamento, e se inizialmente la loro opera sembrò rientrare nei limiti della psicologia dello sviluppo dei primi anni di vita, progressivamente ha ampliato il suo campo d’azione verso lo studio della personalità, del comportamento e delle relazioni adulte, della genitorialità e della psicopatologia, grazie anche al lavoro parallelo di figure come Mary Main, Patricia Crittenden, Peter Fonagy, Philip Shaver e molti altri che è impossibile citare esaustivamente. Questo ampio insieme di ricerche in continua evoluzione può fornire risposte originali alla domanda iniziale, se vi siano davvero quelle che Freud chiamava “coazioni a ripetere” nell’ambito delle relazioni sentimentali.

    Cosa resta delle esperienze di attaccamento della prima infanzia nel resto della vita?

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    Bowlby considerava il bisogno del bambino di vicinanza e di protezione da parte della madre come un insieme di comportamenti “corretti secondo lo scopo”: non schemi fissi di azione ma motivazioni e rappresentazioni organizzate a raggiungere quel fine (soddisfare il bisogno di vicinanza) a partire da condizioni di partenza tra loro molto diverse. Tra queste condizioni gioca un ruolo chiave, nella prima infanzia, la condotta della madre, al punto da produrre linee di tendenza specifiche nei bambini a seconda di come la mamma risponde alle loro richieste (vedi box “Stili di attaccamento nell’infanzia”). Egli ipotizzò che questa organizzazione iniziale lasciasse poi una sorta di eredità, che racchiuse sotto il nome di Modelli Operativi Interni (MOI). Si tratta di modelli di sé e dell’altro significativo che operano all’interno di una relazione di attaccamento. Mentre i comportamenti di attaccamento possono naturalmente evolvere e anche divenire latenti, i MOI sono ritenuti relativamente stabili nel tempo, tendenti ad autoconfermarsi nelle relazioni via via vissute, pur non potendo essere considerati schemi immutabili (affronteremo più oltre la questione della stabilità dei MOI). I modelli originari formatisi nella prima infanzia operano per lo più al di fuori della coscienza, ma su di essi si appoggiano poi nel tempo altre rappresentazioni coscienti riguardanti il sé, l’altro e la relazione. Queste rappresentazioni avranno un certo grado di coerenza con i modelli inconsci, tanto maggiore quanto più alto è il grado di sicurezza dell’attaccamento.

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    All’interno dei MOI vi sono quindi modelli (positivi o negativi) di sé e dell’altro significativo, caricati di affettività; alcune ricerche sull’attaccamento adulto nelle relazioni sentimentali hanno portato a concettualizzare questi modelli positivi o negativi come (a) la percezione del sé come degno/non degno di amore, e (b) la percezione dell’altro significativo come disponibile/indisponibile ad amare il sé. Successivamente autori diversi hanno disposto queste rappresentazioni su due assi tra loro ortogonali (vedi schema):

    1. il livello di ansietà, che misura il grado in cui la persona è tormentata dall’ansia di essere respinta, abbandonata o non amata; è stato proposto di sovrapporre questo asse a modelli di sé positivi (bassa ansietà) o negativi (alta ansietà)

    2. il livello di evitamento, che misura il grado in cui la persona limita l’intimità e l’interdipendenza con gli altri; è stato proposto di sovrapporre questo asse a modelli dell’altro positivi (basso evitamento) o negativi (alto evitamento)

    Negli studi della Ainsworth si delineavano tre stili principali nell’infanzia, mentre combinando i due assi emergono quattro possibili stili di attaccamento adulto (tra parentesi il corrispondente stile infantile). Vi è infatti uno sdoppiamento verso due forme di stile evitante: il timoroso, contraddistinto da un modello negativo sia di sé che dell’altro, e il distaccato che differisce per il fatto di avere un modello di sé positivo con alta autostima. Si è visto però che la buona considerazione di sé dei Sicuri e dei Distaccati presenta significative differenze nella fonte: per i Sicuri è la sfera personale e affettiva, per i Distaccati prevale invece la sfera delle capacità e dell’autoefficacia.

    Se un ipotetico, ideale rappresentante di ciascuna categoria potesse descriversi, pronuncerebbe probabilmente le frasi che seguono, utilizzate in varie forme per i test sullo stile relazionale:

    Adulto sicuro: «Trovo facile stabilire relazioni intime con gli altri. Mi sento a mio agio nel dipendere da loro e nel sentire che qualcuno dipende da me. Non mi preoccupa l’idea di essere abbandonato o di non essere accettato dagli altri.»

    Adulto preoccupato: «Vorrei instaurare relazioni estremamente intime, ma spesso trovo che gli altri sono riluttanti a stabilire con me l’intimità che desidererei raggiungere. Sto male se non sono in stretto contatto con qualcuno e qualche volta temo che il mio (la mia) partner non mi ami quanto io amo lui (lei).»

    Adulto distaccato: «Sto bene senza relazioni emotive strette. È molto importante per me sentirmi indipendente e autosufficiente; preferisco non dipendere dagli altri e che gli altri non dipendano da me.»

    Adulto timoroso: «Mi sento a disagio quando mi lego agli altri. Desidero stabilire relazioni intime ma trovo difficile avere completa fiducia negli altri o dover dipendere da loro. Ho paura di soffrire se mi lego troppo agli altri.»

    Come si vede, ciascuno stile traccia un modo tipico di stare nelle relazioni sentimentali, inclusa la possibilità che queste vengano evitate in assoluto (dai timorosi) oppure (nei distaccati) si preferiscano quelle rapide e superficiali, tese a evitare l’intimità affettiva e mentale, pur godendo dei piaceri della sessualità; questo aspetto porta alcuni a condotte anche decisamente promiscue. Ciascuno a suo modo, ogni stile mantiene una propria sostanziale coerenza interna; la ricerca ha inoltre enucleato ulteriori particolari categorie che implicano invece forti incoerenze, ad esempio con la compresenza di reazioni logicamente incompatibili. Si tratta di categorie per lo più di applicazione clinica. È ora arrivato il momento di domandarsi come possa essere compreso l’amore adulto alla luce delle ricerche sull’attaccamento.

    L’amore… che cos’è?

    Concettualizzare l’amore sentimentale adulto è una impresa in cui molti psicologi e psicoanalisti si sono cimentati, e non è certo questa la sede per una rassegna in tal senso. È però necessario esplorare quanto è stato prodotto nell’ambito della ricerca sull’attaccamento adulto per comprendere la natura delle relazioni amorose. Già Bowlby (1982) paragonava la costruzione del legame di attaccamento all’innamoramento.

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    Nel 1987 Hazan e Shaver (in Carli 1995) andarono oltre cercando di individuare alcune specificità non previste dalla teoria dell’attaccamento infantile: prima di tutto l’amore di coppia è una strada a doppio senso, dove ciascun partner può in determinate circostanze divenire bisognoso di rassicurazione, attendendosi che l’altro si prenda cura di lui. In secondo luogo l’amore adulto è sempre accompagnato dall’attrazione sessuale, mentre solo gli psicoanalisti più fantasiosi sostengono che l’attaccamento del bambino alla madre sia di natura sessuale. Vi è un certo accordo tra i teorici dell’attaccamento nell’individuare almeno tre nuclei motivazionali nell’amore adulto: sessualità/riproduzione, attaccamento e accudimento. Feeney e Collins (in Rholes e Simpson 2007), sulla base di solide basi empiriche, hanno ulteriormente scomposto il terzo nucleo in due parti: il “porto di salvezza” e la “base sicura”, ovvero, rispettivamente, il fornire sostegno al partner in condizioni di stress, e il fornire appoggio e incoraggiamento al partner per le sue attività di esplorazione, di crescita personale, di perseguimento di mete. Dalle loro ricerche emerge che quando in una coppia questi ruoli sono flessibili e sensibili alle situazioni che via via vengono vissute, i partner sperimentano maggiore stabilità relazionale, maggiore soddisfazione e fiducia, benessere fisico e psicologico; quest’ultima variabile è naturalmente collegata a reazioni meno severe allo stress e a un maggiore senso di autorealizzazione personale.

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    Non è stata prodotta una teoria unitaria sul modo in cui questi tre sistemi motivazionali si assemblano in ciascun individuo o, per meglio dire, in ciascun individuo coinvolto in una determinata relazione. Un canale di comunicazione che porta dalla sessualità all’attaccamento è però stato individuato chiaramente: se due persone intraprendono una relazione completa e quindi hanno rapporti sessuali, dopo l’orgasmo sia nell’uomo che nella donna si assiste a un massiccio rilascio di ossitocina, un ormone che svolge numerose funzioni in diverse circostanze comportamentali e sociali. In questo caso, come mostrato nella figura sotto, esso genera un iniziale senso di calma e appagamento, associato a sentimenti di fiducia e di vicinanza e al bisogno di abbracci e di contatto, favorendo quindi l’instaurarsi di un legame di attaccamento e di accudimento reciproco. Non è di poco conto il fatto che l’ossitocina sia anche il mediatore dei comportamenti di accudimento verso la prole; essa è però soltanto il più noto e studiato dei vari aspetti fisiologici attivati dall’amore di coppia e che a loro volta ne costituiscono la base organica. S.W. Porges nell’ambito delle sue ricerche sulle complesse funzioni del nervo vago e del tono vagale rispetto al comportamento sociale umano riprende ampiamente il ruolo di ossitocina e vasopressina includendole in un raggio più vasto che interessa molte zone del cervello fino alle parti del tronco cerebrale da cui si diparte il nervo vago. Egli fa notare che l’amore e in particolare la sessualità implicano un funzionamento assolutamente specifico e in certa misura eccezionale del corpo: l’attività sessuale sembra essere l’unico caso in cui a livello del sistema nervoso autonomo si assiste a una attivazione simultanea del simpatico e del parasimpatico, e di quest’ultimo fa parte anche il nervo vago. Un buon livello del tono vagale viene ormai concordemente associato a maggiore resistenza allo stress e in ultima analisi a un maggior benessere generale. È stimolante riportare almeno un recentissimo studio nel quale, a partire dagli studi sul vago, Helm e colleghi (2014) mostrano sperimentalmente come le coppie a più alta soddisfazione reciproca manifestino, quando interagiscono, una sorta di sincronizzazione delle curve del battito cardiaco in funzione del respiro (RSA, Respiratory Sinus Arrhytmia); se consideriamo che la RSA è a sua volta il più fedele indicatore di un buon tono vagale, possiamo comprendere come la comune esperienza che un amore di coppia pieno e soddisfacente sia anche un fattore di salute fisica non sia frutto di superstizione o leggenda, ma inizi a mostrare anche le sue basi organiche, che sono poi le stesse basi che rendono possibile, accanto a strutture più squisitamente cerebrali, il fenomeno dell’attaccamento lungo tutto l’arco di vita.

    Abbiamo finora messo a confronto le vicende dell’attaccamento nella primissima infanzia con quanto può essere osservato nell’adulto. Proviamo adesso a integrare tutto ciò in un prospettiva di sviluppo nel tempo.

    Esordio sessuale e affettivo in adolescenza

    Si pensa di solito che l’esordio sessuale sia omologabile a una tabula rasa sulla quale scrivono la biologia e la cultura. Se però si ha occasione di frequentare preadolescenti, ancora del tutto inesperti, e ascoltarli parlare delle loro primissime relazioni sentimentali, non si può che restare colpiti dall’esatto contrario: l’adolescente si affaccia al mondo della vita sessuata e sentimentale “come se” ne conoscesse già le determinanti fondamentali riguardanti sé stesso/a. C’è chi esordisce dubitando del proprio fascino, della possibilità di essere amato/a, c’è chi invece pare subito sicuro del desiderio altrui, chi si avventa sull’agire sessuato come un goloso in pasticceria, chi centellina, chi si ritrae… non manca talvolta uno smaliziato cinismo che pare tipico di chi ha “vissuto” e invece si manifesta prima delle esperienze e assai spesso le determina ex ante. Alla luce di quanto scritto poc’anzi, non è difficile percepire che i MOI sono all’opera e apportano il loro sostanziale contributo (per quanto non certo da soli!) alla costruzione delle rappresentazioni di sé e dell’altro significativo nell’esordio sessuale-affettivo. L’adolescente si presenta quindi alla sua nuova vita affettiva partendo da una certa, determinata posizione nel riquadro che distingue i Sicuri dai Preoccupati e dai due tipi di Evitanti. È giunto però il momento di domandarsi quale genere di stabilità abbiano nella vita di una persona i MOI sviluppati nella primissima infanzia, e quale grado di sensibilità abbiano nei confronti delle nuove, e spesso assai coinvolgenti esperienze amorose giovanili e adulte.

    I Modelli Operativi Interni: stabilità o modificabilità?

    Il dibattito su questo tema è straordinariamente ampio e vivo, e sono stati raccolti molti dati e formulate molte ipotesi; data la complessità della questione, è intuibile che nonostante le diverse evidenze accumulate non sia ancora possibile scrivere parole definitive. Riguardo all’amore adulto si possono però enucleare alcuni assunti ragionevolmente supportati dalle ricerche:

    • i Modelli Operativi Interni (MOI) che contraddistinguono un certo stile di attaccamento (adulto o infantile) non sono insiemi rigidi e monolitici, quanto piuttosto reti dinamiche e stratificate di rappresentazioni e motivazioni. All’interno di queste reti alcuni elementi sono più facilmente attivabili mentre altri tendono a restare latenti a meno di particolari sollecitazioni (riprenderemo questo punto più oltre).

    • I MOI prefigurano comportamenti corretti secondo lo scopo, quindi flessibili e sensibili alla condotta del partner della relazione di attaccamento.

    • L’individuo tende a selezionare e a provocare esperienze di relazione che confermano i modelli principali più facilmente accessibili. Esperienze intense di relazione amorosa (sia positive che traumatiche) possono però produrre modificazioni anche rilevanti e persistenti nei MOI.

    • Diversi studi sembrano portarci a pensare che gli attaccamenti precoci non abbiano una forte influenza sullo sviluppo seguente, ma che tale influenza sia piuttosto persistente nel tempo.

    Cosa implicano questi assunti per i partner di una relazione amorosa, dal momento che si tratta essenzialmente di una combinazione eterogenea di fattori di stabilità e di cambiamento? Le risposte sono ampie e diversamente supportate da numerose ricerche; vediamole ora in successione nelle varie fasi delle relazioni amorose.

    La scelta del partner

    La maggior parte degli studi esistenti non fornisce solido supporto all’idea che gli stili di attaccamento (e i MOI che ne derivano) influenzino in modo significativo la scelta del partner per una relazione amorosa. Sembra che su questo aspetto iniziale della relazione agiscano fattori meno specifici ma più visibili come l’attrazione fisica, la gestualità, e infinite altre componenti estremamente eterogenee. Pare invece assodato che i MOI prevalenti di ciascun partner giochino un ruolo rilevante nella durata, nel clima relazionale, nel grado di soddisfazione reciproca dei partner della coppia, come vedremo nel prossimo paragrafo. A partire da questo assunto sembra ragionevole pensare che nel caso di un corteggiamento sufficientemente lungo alcuni aspetti dello stile di ciascun partner potrebbero già contribuire per lo meno a confermare o meno l’intenzione di intraprendere la relazione. Ci dovremmo aspettare che una persona Sicura corteggi in modi differenti, e più flessibili, rispetto ad altri tipi di MOI: ad esempio una persona Preoccupata potrebbe essere vissuta come assillante e intrusiva da molti potenziali partner, mentre una persona Timorosa potrebbe essere vissuta come eccessivamente distante o fredda già dalle prime interazioni. Non disponiamo però di studi specifici che ci confermino che questi aspetti, certamente ben percepibili a livello fenomenologico, giochino poi realmente un ruolo nella scelta del partner. Alcuni studi riportati da G. Attili riferiscono che gli individui Sicuri tendono a essere più efficaci nell’individuare nel potenziale partner segnali di affidabilità e interesse o viceversa di superficialità e disinteresse, orientando quindi naturalmente la loro scelta in funzione di quanto percepiscono nell’altro. Gli individui delle altre tre categorie (Preoccupati, Distaccati e Timorosi) subiscono invece distorsioni nella valutazione dei potenziali partner che sono funzione delle particolarità dei loro MOI: essi tenderanno a privilegiare scelte di partner che confermano la visione di sé e dell’altro presupposta dai propri MOI. Ad esempio, un modello di sé come scarsamente degno di amore (anche se di norma non rappresentato a livello di coscienza) porterà a preferire, paradossalmente, proprio individui realmente poco innamorati o poco capaci di amare, che convalidano quindi questa visione.

    Esiste la coppia “vincente”?

    La risposta è, prudentemente, affermativa: le coppie costituite da due individui Sicuri, oltre ad essere statisticamente più frequenti, sono anche quelle più felici e durature, grazie a un insieme di fattori:

    • la flessibilità di ruoli nel chiedere o prestare cure e supporto: in funzione delle esperienze via via vissute, ciascun membro della coppia può agevolmente stare nel ruolo di chi chiede conforto o lo fornisce.

    • La capacità degli individui Sicuri di vivere con agio la dipendenza, l’autonomia e il passaggio tra le due condizioni, trovando quindi motivi di benessere sia nella vicinanza che nella lontananza tra i due partner; è quel che abbiamo descritto in precedenza parlando del “porto di salvezza” e della “base sicura”.

    • Stare in coppia implica da un lato la rinuncia di entrambi a una certa quantità di autonomia a favore del contatto reciproco, e dall’altro richiede che tale contatto non sia così assoluto da essere sentito come soffocante: si tratta di necessità contrastanti tra le quali si deve trovare un punto di equilibrio. È in questa ricerca che le coppie di partner Sicuri sanno destreggiarsi meglio.

    • La capacità di esprimere vicendevolmente in modo adeguato le proprie emozioni e di ascoltare quelle espresse dall’altro membro, potendo quindi agire reciprocamente in modo coerente e supportivo.

    • La capacità di risolvere in modo costruttivo i conflitti senza avvertirli come una minaccia, venendosi incontro e negoziando scelte che possano essere soddisfacenti per entrambi.

    Anche individui non Sicuri possono formare coppie uniformi: Preoccupati con Preoccupati, Distaccati con Distaccati, Timorosi con Timorosi. Pare che queste associazioni siano poco frequenti e di norma poco stabili, poiché non confermano in modo complementare i rispettivi MOI dei partner. Le coppie di Preoccupati sono contraddistinte da conflitti e scoppi di rabbia, mentre le coppie di Timorosi sembrano avere poche chance di formarsi, per eccessivo ritegno ed esitazione. Qualche possibilità in più si offre alle coppie di Distaccati, che possono trovarsi a loro agio insieme, mantenendo le distanze e un moderato coinvolgimento, senza escludere l’eventualità di piccoli tradimenti che aiutano a evitare il (temuto) consolidarsi del legame.

    Merita un discorso a parte l’unione di un individuo Preoccupato con uno Distaccato, che risulta in un certo senso perfettamente complementare, e destinata a durare, pur essendo fondamentalmente infelice. La forma di gran lunga più frequente statisticamente è quella che vede una donna Preoccupata in coppia con un uomo Distaccato. I due partner confermano reciprocamente i rispettivi MOI: la donna si aggrappa, è gelosa e usa la rabbia come deterrente all’allontanarsi dell’uomo, confermando costui nella sua convinzione che non si debba lasciar avvicinare troppo l’altra persona. Inoltre in queste coppie la donna, a fronte dei tentativi falliti di invischiare il compagno, diventa spesso ostile e svalutante, riproducendo la condotta della figura affettiva di cui l’uomo ha fatto esperienza da piccolo. In modo complementare l’uomo conferma la sua partner nella sua convinzione di non essere degna di amore e che gli altri non siano capaci né desiderosi di amarla. Pur non essendo vissuto da nessuno dei due come soddisfacente, tuttavia questo genere di relazione viene assai spesso tenuto in vita tenacemente con il contributo prevalente della donna. Risulta infatti che coppie a ruoli invertiti (donna Distaccata e uomo Preoccupato) non siano altrettanto durature. Per quanto siano necessari ulteriori studi più approfonditi, sembra accertato che uomo e donna siano decisamente diversi nella percezione di soddisfazione/insoddisfazione nella coppia, e diverso il contributo che danno alla sua buona riuscita.

    Queste influenze reciproche possono divenire fortemente problematiche negli individui con MOI incoerenti e contraddittori. Queste persone partecipano alla relazione come se si trovassero contemporaneamente in aree diverse del diagramma a quattro riquadri, attivandone via via aspetti diversi e contraddittori; a titolo di esempio, una persona può agire come Preoccupata in una fase della relazione, ma trasformarsi repentinamente in Distaccata, abbandonare il partner, poi tornare Preoccupata e implorarlo di non lasciarla (come dimenticando di averlo lasciato!). In alcuni casi il desiderio stesso di intimità col partner coesiste con la paura della medesima intimità, e, ancora, da questa paura scaturisce una richiesta di vicinanza proprio a quel partner. Come è intuibile, è molto difficile che persone con MOI così oscillanti, contraddittori e disorganizzati riescano a mantenere una relazione nel tempo, sia per le obiettive difficoltà dei loro partner, sia perché esse stesse iniziano a vedere le relazioni come fattori di intollerabile stress. Anche in questo caso, però, può capitare che anche l’altro membro della coppia abbia MOI simili, e entrambi si trovino così avviluppati in una spirale di contraddizioni.

    Infine, anche se pare statisticamente poco frequente, non è escluso che individui Sicuri si leghino a un partner Preoccupato, Distaccato o Timoroso. Diversi autori sostengono che unioni del genere abbiano una ricaduta positiva sul membro della coppia non Sicuro, poiché i MOI di quest’ultimo riceverebbero disconferme in positivo, attenuando in parte la forza di modelli interiori pessimistici sul sé, sull’altro e sulle relazioni d’amore. Altri autori ipotizzano anche l’effetto contrario, ovvero che un individuo Sicuro possa essere portato ad agire in modo più simile a un non Sicuro se coinvolto in un legame con un Distaccato o un Preoccupato. Queste considerazioni ci portano a ridefinire in modo più dinamico l’effetto dei MOI sul rapporto di coppia.

    Effetti del partner e della coppia

    Si assiste a un crescente consenso degli studiosi intorno all’idea che il fatto stesso di vivere una relazione di coppia con una certa specifica persona retro-agisca sui MOI di ciascun membro, rinforzando alcune rappresentazioni e indebolendone altre. Come già anticipato a proposito della stabilità Vs variabilità dei MOI, alcuni autori sembrano ipotizzare che ciascun individuo sia portatore di una (relativa) pluralità di modelli, tra i quali solo alcuni sono immediatamente accessibili e vengono espressi nell’azione nella maggior parte delle occasioni, mentre altri sono meno accessibili, e abbisognano di particolari stimoli di contesto per venire espressi nel comportamento. Questo è congruente con l’esperienza comune: è diffusa l’idea che un individuo abbia un certo “stile” personale che si esprime in molte delle sue relazioni amorose, sia pur non meccanicamente e con relativa variabilità, ma è altrettanto esperienza diffusa che la stessa persona, almeno in una particolare vicenda d’amore, possa agire in modi eccezionali e stupefacenti per sé e per gli amici. Già Bowlby riteneva che una esperienza amorosa di questo genere fosse in grado non solo di far agire l’individuo in modi diversi dai consueti, ma talvolta di spostarne in modo stabile gli equilibri interni, plasmandone i MOI. Non sembra però possibile, allo stato attuale delle conoscenze, predire quale direzione possa prendere il cambiamento, e quale sarà il grado di stabilità che esso assumerà in futuro.

    Resta il fatto basilare che in una coppia ciascun membro porta la propria storia di attaccamento, dai MOI costituitisi e stratificatisi nell’infanzia fino alle trasformazioni dovute alle vicende amorose adolescenziali e adulte; questa storia però, ben lungi dall’essere uno schema di azione rigido, si declina in un contesto, quello della specifica coppia, all’interno della quale si sommano effetti del partner e effetti della coppia. I primi riguardano l’effetto sulla persona A dell’essere legata alla persona B. Vi è un certo consenso su due punti:

    • la complementarità: un individuo che ha un legame con una persona con MOI di tipo Distaccato tenderà a comportarsi in modo più Preoccupato del solito, convalidando, almeno in questo caso, il detto popolare che “in amore vince chi fugge”. Viceversa, in un legame con un partner Preoccupato l’individuo tenderà a comportarsi in modi più congrui con MOI Distaccati.

    • Mentre la complementarità tende a bloccare l’evoluzione, viene evidenziato come lo stile Sicuro di stare in coppia possa con buone probabilità avere effetti dinamici per lo più positivi anche su partner non Sicuri. Abbiamo già accennato al fatto che lo “stile” Sicuro di stare in coppia, più trasparente, coerente, capace di espressività e di ascolto emotivo, crea opportunità per il partner non Sicuro di assimilare disconferme (in positivo) dei propri pessimistici modelli interiori del sé, dell’altro e delle relazioni d’amore.

    Gli effetti di coppia tengono conto di un doppio rapporto di influenza: abbiamo finora previsto semplicemente che il partner A attualizzi determinati MOI in risposta al modo in cui fa esperienza dell’agire del partner B, come se ciò fosse un dato statico; in realtà a sua volta il partner B attualizza specifici MOI in risposta al modo in cui fa esperienza dell’agire del partner A! Si vengono così a creare condizioni di reciprocità che possono, a seconda dei casi, esasperare o moderare determinate tendenze di ciascun individuo ad agire nella coppia secondo certi suoi MOI dominanti. Non vi sono ancora studi definitivi sul modo in cui i MOI dominanti di ciascun membro della coppia interagiscono con i MOI risultanti dagli effetti di coppia; alcuni ritengono vi sia una certa autonomia tra i due ambiti, altri che vi siano rilevanti influenze articolate secondo diversi modelli ipotetici. Le ricerche generali sulla persistenza e la pluralità dei MOI nell’arco di vita suggerisce che il modo in cui lo stile originario di attaccamento di una persona influisce sul modo di porsi in una determinata coppia con un determinato partner non segua un unico modello statico, ma dipenda dalla natura e dalla forza emotiva con cui i MOI dominanti agiscono e dal modo in cui i MOI del partner si combinano con essi. Questo potrebbe contribuire a dare un significato meglio spiegabile all’esperienza comune sulle relazioni amorose: le vicende biografiche di alcune persone sembrano davvero riprodurre quella che Freud chiamava “coazione a ripetere”, con rapporti di coppia che iniziano, si sviluppano e finiscono in modi talvolta sorprendentemente simili, e a dispetto degli sforzi del soggetto di cambiare, ma questa non è affatto una regola totalizzante, poiché altre biografie contengono invece cambi di scenario anche rilevanti, nei quali ogni storia amorosa ha caratteristiche e sviluppi propri e non sovrapponibili a quelli delle altre. Nessun determinismo rigido, quindi, nessun destino preordinato all’origine sembra essere sorretto dagli studi finora condotti, semmai linee di tendenza, influenze anche di lungo termine e finanche prevedibili, ma sempre aperte alle contingenze della vicenda attuale e presente vissuta dai soggetti.

    Si potrebbe quindi concludere che non solo le vicende infantili del rapporto con le figure di attaccamento, ma anche la coppia adulta (e già quella adolescenziale) costituiscono un contesto/sistema relazionale contraddistinto da maggiore o minore sicurezza percepita, a prescindere dai MOI dei due membri. Nel testo di Rholes e Simpson una rassegna di studi porta ad affermare che la sicurezza percepita nella coppia dipende dal fatto che ciascun membro, sulla base di prove esperienziali e di percezioni soggettive, senta come vere affermazioni di questo tenore:

    • il mio partner mi ama

    • il mio partner mi conosce e mi apprezza per quello che realmente io sono

    • il mio partner desidera essere disponibile e affettuoso verso di me

    • il mio partner è una persona buona, responsiva e capace di soddisfare i miei bisogni.

    Nella misura in cui alcune o tutte le affermazioni precedenti sono avvertite come dubbie o false, la sicurezza percepita dai partner diminuisce o si annulla. Questa percezione di insicurezza della coppia, di per sé, è comune a qualunque partner con qualsivoglia MOI; sempre più ricerche evidenziano però che i MOI condizionano sia la percezione di sicurezza (esagerandola o attenuandola) sia la reazione emotiva e di comportamento di un determinato individuo.

    La dipendenza affettiva: malattia o risorsa?

    Quasi al termine della sua trilogia Attaccamento e perdita, Bowlby scrive: “L’attaccamento intimo agli esseri umani è il perno attorno al quale ruota la vita di una persona, non solo nell’infanzia e nella fanciullezza, ma per tutta l’adolescenza e negli anni della maturità, e anche nella vecchiaia. È da questi attaccamenti intimi che l’individuo trae la sua forza e la sua voglia di vivere, con cui contribuisce a sostenere e gratificare i suoi simili.” In conseguenza di questa visione, la dipendenza è considerata un aspetto intrinseco dell’essere umano e non più come un tratto infantile di cui ci liberiamo crescendo. In questa ottica la completa indipendenza è una chimera, e l’iperdipendenza un concetto vago e mal delineato. La teoria dell’attaccamento conosce solo una dipendenza efficace o inefficace: mentre la prima favorisce l’autonomia e la fiducia in sé attraverso il riconoscimento dell’interdipendenza tra persone, la seconda si limita coercitivamente a restringere lo spazio di autonomia personale e a produrre sentimenti penosi di disistima di sé e di solitudine. Spesso l’inseguimento della chimera della assoluta indipendenza è figlio proprio di una dipendenza inefficace e/o rifiutata.

    Queste concezioni, espresse da Bowlby originariamente quasi quarant’anni fa, e riprese e sviluppate da molti altri, non sono divenute parte del sentire comune nella civiltà occidentale: già pochi anni dopo l’autore stesso evidenziava una cultura della patologizzazione della dipendenza. Non possiamo ignorare che gli individui vivono all’interno di una cultura che agisce sulle rappresentazioni di sé e dell’altro, e alcune storture e disagi della modernità possono discendere proprio da questa patologizzazione.

    Modelli Operativi nella società e nella cultura

    Nella misura in cui i MOI sono rappresentazioni dinamiche dell’individuo, degli altri, e delle relazioni, non è troppo azzardato affermare che anche la cultura di un popolo o una società contiene rappresentazioni del genere, e le diffonde nei suoi mezzi di comunicazione di massa e non; dunque potremmo dire che vi sono dei prototipi di MOI di origine culturale che contribuiscono al processo di adattamento degli individui a sé stessi e agli altri, favorendo certuni e limitando altri. Per attenerci soltanto alle visioni dell’amore adulto, sembra chiaro che l’indipendenza individuale in occidente è ampiamente sopravvalutata, presupponendo mete di autosufficienza irraggiungibili all’essere umano. Il legame è più spesso visto come limitante, a favore di una indefinita, ludica partecipazione a rapporti di coppia disinteressati o a bassa intensità. Non sarebbe quindi casuale che, come è stato affermato da G. Pietropolli Charmet, i nuovi adolescenti vedano nell’innamoramento una sorta di malattia, e che si sforzino attivamente di non contrarla.

    Il cinema e la TV rappresentano nelle loro narrazioni per immagini diverse tipologie di amore: per quanto sia davvero arduo farne una statistica attendibile, si può prudentemente affermare che nelle fiction più diffuse troviamo una certa quota di coppie sicure, sovrastata da una pletora di legami tormentati, tipici degli individui Preoccupati. I comportamenti dell’altra metà del nostro schema iniziale, i Distaccati e i Timorosi, sono in generale poco rappresentati, salvo forse per una versione semplicistica, promiscua, vincente e culturalmente desiderabile del Distaccato in veste di seduttore seriale (al maschile e anche al femminile, per quanto più rara). Pur esistendo altri tipi di soggetti non Sicuri, essi sono davvero poco rappresentati nel cinema e nella fiction televisiva; per la loro pregiata rarità meritano una citazione almeno il classico Un cuore in inverno (1992) e il recente Emotivi anonimi (2011). Il primo dipinge con calligrafica precisione un individuo assimilabile al modello Distaccato, ma con forti elementi Timorosi, ben rappresentato nel dialogo in cui dice a una donna: «Devo dirti la verità. È vero che ho pensato di sedurti, ma non per amore, per gioco! … deciso a tavolino… tu non capisci. Parli di sentimenti che non provo, che non esistono, ai quali non ho accesso. Io non ti amo.» Emotivi anonimi descrive invece con leggerezza e brio la vicenda d’amore miracolosamente riuscita tra un uomo e una donna ben assimilabili al modello Timoroso, ma pieni di desiderio, a differenza dell’algido liutaio del primo film citato.

    Implicazioni in ambito terapeutico degli studi sull’attaccamento adulto

    Come già illustrato più ampiamente nel paragrafo “Esiste la coppia vincente?”, i mattoni portanti di un legame sicuro sono in ultima analisi la vicendevole accessibilità e responsività emotiva tra i partner, ovvero la capacità di ricevere e accogliere i segnali emotivi dell’altro e di rispondervi in modo soddisfacente. La gamma delle emozioni non si riduce a richieste di sostegno e aiuto (porto di salvezza) né a quelle di Base sicura, ma spazia in tutti gli ambiti vitali. Tra queste emozioni giocano un ruolo chiave, come è intuibile, quelle legate alla sessualità in tutte le sue manifestazioni.

    La teoria dell’attaccamento predice anche i più probabili eventi causati dai fallimenti dei presupposti tipici delle coppie sicure, eventi che abbiamo già esaminato precedentemente: la protesta/richiesta con accuse rabbiose e il complementare ritiro/disimpegno emotivo del partner, uniti a vari gradi di deformazione nella percezione dei comportamenti dell’altro, interpretati come minaccia (o abbandono) anche quando non lo sono, o non riconosciuti come richieste di supporto e aiuto. Le ricerche confermano che il ciclo di richieste rabbiose seguite dal distanziamento difensivo dell’altro predice in modo accurato il divorzio. Che può fare allora il terapeuta che voglia applicare quanto esposto finora? La terapia di coppia focalizzata sulle emozioni (EFT) è un approccio empiricamente validato che utilizza la teoria dell’attaccamento per comprendere le esigenze e le emozioni dei partner. EFT è riconosciuto come uno degli approcci più efficaci in questo ambito (Dalgleish et al. 2014). In questo approccio la coppia viene aiutata a “tradurre” in modo costruttivo nei termini dell’attaccamento tutti i messaggi mal compresi, deformati o ignorati che hanno portato alla crisi. In sintesi, la EFT inizia mettendo in evidenza i cicli negativi di rabbia e evitamento, riformulandoli in termini di tentativi (mal diretti) di consolidare la relazione; successivamente si procede a coinvolgere nuovamente il partner disimpegnato, mettendo in primo piano anche tutto il correlato di impotenza e inadeguatezza che sta dietro questo ritiro. Viene rimarcato che l’evitamento, lungi dall’essere un abbandono o un disamore, è piuttosto un disperato tentativo di un partner di proteggersi dagli attacchi dell’altro, vissuti come schiaccianti e svalutanti. La terza fase prevede di lavorare proprio su questi attacchi, non solo evidenziandone il significato di richieste di vicinanza, ma anche attenuandone la forza distruttiva. Qui viene fatto emergere il correlato di disperata solitudine e di impotenza a coinvolgere e far avvicinare il partner che sta dietro le richieste rabbiose. In ultima analisi quindi la EFT opera introducendo elementi di sicurezza all’interno di una coppia che ha sperimentato elevati livelli di insicurezza.

    (Parliamo di questo tema anche in quattro bellissimi video)

    Bibliografia

    Attili G., Attaccamento e costruzione evoluzionistica della mente, Raffaello Cortina, Milano 2007

    Bowlby J., Attaccamento e perdita Vol. 3, La perdita della madre, (I ediz. 1980), Boringhieri, Torino 2000

    Dalgleish T.L., Johnson S.M., Burgess Moser M., Lafontaine M.F., Wiebe S.A., Tasca G.A., Predicting Change in Marital Satisfaction Throughout Emotionally Focused Couple Therapy, J Marital Fam Ther. 2014 Jun 9.

    Helm J.L., Sbarra D.A., Ferrer E., Coregulation of respiratory sinus arrhythmia in adult romantic partners, Emotion 2014 Jun;14(3):522-31.

    Carli L., (a cura di), Attaccamento e rapporto di coppia, Raffaello Cortina, Milano 1995

    Pietropolli Charmet G., I nuovi adolescenti, Raffaello Cortina, Milano 2000

    Porges S.W., The Polyvagal Theory: Neurophysiological Foundations of Emotions, Attachment, Communication, and Self-regulation , W. W. Norton & Company, New York – London 2011

    Rholes W.S., Simpson J. A., (a cura di), Teoria e ricerca nell’attaccamento adulto, Raffaello Cortina, Milano 2007

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    Quest’opera di Franco Nanni è stata rilasciata con licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Condividi allo stesso modo 3.0 Italia.

  • Star bene con la mente

    Star bene con la mente

    Eccoti qui. Hai lo smartphone in mano, o il tablet. Stai leggendo queste parole. Sei davvero qui con la mente? O stai pensando anche ad altro? Facci caso: quante cose fai ogni giorno con la testa altrove? È normale, il nostro cervello tende a viaggiare in continuazione nel tempo e nello spazio. C’è un’altra cosa da sapere: due studiosi hanno messo a confronto 5000 persone durante circa 250mila momenti della loro vita (con una semplice e geniale tecnologia) e hanno mostrato che in linea generale quando la nostra mente “viaggia” noi siamo assai meno felici di quando la mente è presente sul qui e ora. E questo indipendentemente dal fatto che stia viaggiando in luoghi felici o meno.
    Lo studio dimostra che esiste un solo luogo dove possiamo davvero esserci, e, potendo, anche essere felici: il presente. Il passato e il futuro sono due luoghi importantissimi della vita di ciascuno di noi ma pensiamo troppo poco a una semplice verità: nel passato e nel futuro non succede niente, non sentiamo niente, non proviamo niente. Tutto quello che ci succede, tutte le sensazioni che proviamo e tutte le nostre emozioni avvengono esclusivamente nel momento presente.

    roskopfVuoi provare? Restringi l’attenzione a questo attimo presente, e accorgiti che stai respirando. Leggi una parola per volta: SEI-QUI-ADESSO. Respira. Cerca di sentire il più vivo possibile tutto ciò che c’è lì adesso: sensazioni del tuo corpo, rumori esterni, odori, pensieri e immagini della mente. Lascia sullo sfondo tutto ciò che è altrove, nel passato, nel futuro, nello spazio. Resta così per almeno due minuti.
    Fatto?
    Per caso ti sei accorta che la mente formulava pensieri nel frattempo? Qualcosa come “embè? Cosa è mai? Tutto qua?” Oppure “cosa devo comprare per la cena di stasera?” Bene, allora non eri QUI-ADESSO ma… Stavi pensando. Riprova. Senti il corpo, il respiro, i suoni e gli odori intorno a te. SEI-QUI-ADESSO. Anche i tuoi pensieri passano per la mente ma sono come i rumori: passano. SEI-QUI.
    Bene. Questo esperimento minimo è terminato. Ora torna al tuo stato “normale”, che chiamerei “normalmente distratto”. Finisci di leggere questa frase e confronta come ti sei sentita (A) nel presente del SEI-QUI e (B) in tutti i momenti in cui hai fatto cose con il “pilota automatico” pensando ad altro.
    Rifletti bene. C’è differenza? Moltissime persone prima di te hanno risposto affermativamente, ma non sono certo che sia accaduto anche a te.

    Prova durante il giorno a compiere almeno una azione banale (come lavarsi i denti) cercando di essere assolutamente presente. Colleziona più momenti in cui “ci sei” e non hai la testa altrove. Dopotutto è una piccolissima prova, ma è qualcosa: potresti trovare un tempo presente dove si può essere meno in ansia, meno insoddisfatti, meno preoccupati, meno infelici del solito, e magari anche felici.

    Una mente disciplinata
    è un’alleata preziosa.
    Nessuno, né tua madre, né tuo padre,
    né i tuoi amici,
    può esserti di altrettanto aiuto. (Dhammapada)

    Oggi gli approcci basati sulla Mindfulness ci confermano, dopo millenni, l’attualità e l’efficacia di queste antiche idee. Scienza e tradizione insieme ci guidano. Se entri a contatto con le idee qui contenute, ti liberi dell’ossessione del pensiero positivo, dal tentativo sempre fallimentare di non vivere certe esperienze a favore di altre… sarai più capace di agire nella direzione che hai scelto, con chiarezza e energia.
    Tutto comincia col fare le cose e insieme esserci, esser qui con la mente, qui e non altrove. Respirare e sentire il proprio corpo presente. Il resto segue. È qualcosa che si impara, come tante cose della vita, qui si impara a fare buon uso della propria mente. A farne, come dicevano gli indiani antichi, il nostro migliore alleato, anziché la nostra nemica.
    marescuro
    2

    Potresti credere che avere una mente disciplinata significhi una mente rigida, che esegue ordini come un bravo soldatino. Che, ad esempio, evita di pensare a quello a cui non ti piace pensare. O che pensa sempre “positivo”. No. Una mente disciplinata non è come pensi. Letteralmente: non è come pensi, ma come consideri ciò che pensi, da quale angolazione lo vedi. Se vedi i tuoi pensieri con l’idea che “lo penso quindi è vero”, oppure con l’idea “lo penso, ma un pensiero non è la realtà”.
    Quante volte si dice “non voglio pensare a questo” ma poi fatalmente si viene ossessionati proprio da questo, perché nella mente vale un principio bizzarro: se non vuoi pensare questo, lo stai già pensando. Più pretendi di controllare i tuoi pensieri, più essi controlleranno te. Siamo imprigionati da ciò che rifiutiamo. Allora cosa fa di una mente una mente disciplinata? Passare da una mente-contenuto (io sono ciò che penso) a una mente-contenitore (io sono colui che osserva i suoi pensieri). Un recipiente può contenere acqua, vino, tè, caffè… Ma la mente non è l’acqua né il vino né altro. La mente è il recipiente, i pensieri sono il contenuto. La mente sceglie anche quali, fra i suoi contenuti, divengono azione, realtà, e quali no.

    Questa è la parte 1 di 3 – Leggi il seguito>>>>>>>

  • Ma l’amore… che cos’è? quattro video per capire

    Ma l’amore… che cos’è? quattro video per capire

    Tutti se lo chiedono… soprattutto quando l’amore fa star male, quando l’amore lo si cerca e non lo si trova, quando lo si trova e si fugge… Quattro video per comprendere qualcosa in più di sé e dell’altro attraverso le ricerche della Teoria dell’attaccamento in età adulta.

    (Parliamo di questo tema anche in questo ampio articolo)

    1 – Amore adulto e attaccamento: le geometrie segrete

    2 – Amore adulto e attaccamento: volere l’amore, temere l’amore…

    3 – Amore adulto e attaccamento: La passione malata

    4 – Amore adulto e attaccamento: “devo star bene con me stessa…”

  • Star bene con la mente 3

    Star bene con la mente 3

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    “Io adoro leggere”, dice un uomo, “e… oh, di certo non sono quel genere di persona che tiene ad aver la macchina pulita”. Se scoprissimo che negli ultimi tre anni quell’uomo ha letto sì e no un giallo comprato in edicola, e il vicino ci rivelasse che passa tutti i sabati pomeriggi a lavare, aspirare e lucidare l’automobile, che cosa penseremmo di lui? Certo, potrebbe mentire. Ma esaminiamo ipotesi più stuzzicanti: ad esempio che egli sia del tutto sincero, ma che altre forze lo spingano ad agire contro le sue stesse preferenze. Una terza ipotesi può essere che egli sia in buona fede, nel senso che egli racconta anche a sé stesso di amare la lettura e di fregarsene dell’auto lucente, ma le sue scelte di azione concreta non provengono da ciò che lui si racconta di essere, ma da altre, svariate fonti, ad esempio, la paura di esser deriso dagli amici per l’auto infangata.
    È importante, di tanto in tanto, fare un check up di come usiamo il nostro tempo e le altre risorse, e proviamo a raffinare la corrispondenza tra ciò a cui diamo valore e le azioni concrete che compiamo. A volte dobbiamo prendere atto di bisogni e valori che “non ci eravamo raccontati”, ma che pure sono reali e meritano più impegno; altre volte scopriamo invece di perdere tempo e denaro in attività nelle quali in definitiva non crediamo.

    viaProva anche tu: scrivi un elenco di aspetti della tua vita a cui attribuisci valore e importanza, dal più al meno importante. Poi scrivi di fianco una tua valutazione di quanta parte del tuo tempo dedichi a ciascuno di essi. È ancora in ordine decrescente? Ci sono vistose sproporzioni? È molto probabile che riequilibrando un po’ sia il tempo che l’importanza delle cose tu possa trarre maggiore soddisfazione dalla tua vita di ogni giorno. Allora puoi esaminare con lucidità gli aspetti della vita a cui attribuisci valore e indirizzare in modo più coerente le tue energie verso di essi. Qualche volta incontrai delle resistenze, e te ne parla il prossimo paragrafo.

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    Tutti (o quasi) vorremmo cambiare qualcosa della nostra vita, ma spesso avvertiamo qualcosa che ci ostacola: a seconda dei casi si chiama fatica, sofferenza, dolore o sforzo. Decenni di pubblicità di ogni genere ci hanno abituato a una forma-pensiero inconscia ma estremamente rigida: «se incontri fatica o dolore sicuramente è la strada sbagliata, se incontri piacere e facilità è la strada giusta». Mare1Quando sulla strada del cambiamento incontriamo fatica o dolore ci fermiamo. Credevamo di esserci liberati di una vecchia forma pensiero altrettanto rigida: «la strada giusta è sempre la più lunga, in salita e irta di difficoltà. La via più facile è sempre sbagliata, è …il peccato». In realtà abbiamo solo sostituito uno schema rigido e privo di potere illuminante con un altro altrettanto rigido e privo di potere illuminante. C’è solo una cruda e semplice verità: il fatto che una strada sia faticosa o viceversa facile non dà nessun genere di indicazione sul fatto che sia giusta o sbagliata. Non esistono strade giuste o sbagliate ma esistono soltanto le strade che scegliamo, che abbiamo deciso che sono le nostre. Vorremmo (forse) tutti abolire la sofferenza nel mondo, la nostra e quella altrui, ma nessuno di noi ha questo potere e dunque questo desiderio vive nel mondo dei sogni. Ogni scelta comporta una quota di gratificazione e una quota di sacrificio e se ci limitiamo a mettere sui piatti della bilancia l’una e l’altra cercando conferme che siamo sulla via giusta stiamo solo sognando. Il piacere o il dolore di adesso non ci danno nessuna informazione, poiché la via che abbiamo scelto potrebbe comportare dolore adesso ma grande gratificazione dopo e viceversa potrebbe comportare un piacere momentaneo e una delusione successiva. Nessun riparo, nessuna garanzia ci confermerà che abbiamo scelto bene, se non noi stessi nel trascorrere del tempo. Non c’è altra soluzione che scegliere prima di pancia e poi razionalmente, e essere poi disponibili a vivere ogni conseguenza presente e futura della nostra scelta. È corretto e giusto essere disponibili a vivere ogni conseguenza poiché le conseguenze avvengono comunque e se ci trovano indisponibili a viverle se accaniranno su di noi e il nostro dolore sarà raddoppiato.
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