Educazione Civica: un’occasione persa

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Verso una società neo-disciplinare

Articolo originariamente pubblicato col titolo “Regole, comportamento, competenze sociali e civiche” sul fascicolo 6/2018 della Rivista dell’Istruzione diretta da Giancarlo Cerini. Sono state apportate minime integrazioni e migliorie.

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Tutte le culture e le civiltà devono in qualche modo occuparsi del problema della regolazione socializzata dei comportamenti, anche se naturalmente le soluzioni di una società possono differire di molto da quelle di altre. Sembra che nel nostro mondo attuale, occidentale e industrializzato, si assista a una crisi nel funzionamento e nel rinnovamento di questi processi, crisi che interessa non solo il versante pedagogico e educativo, ma anche quello del mantenere, gestire e conservare condotte adeguate e regolate nella popolazione adulta. Questo articolo è dedicato naturalmente al primo aspetto, ma si rende necessaria qualche incursione nella tematica più generale della regolazione delle condotte a livello di società generale, ben affrontata in un articolo del Censis:

Una società sempre più orizzontale, […] in cui sono sempre più labili i riferimenti valoriali e gli ideali comuni, in cui è più debole la consistenza dei legami e delle relazioni sociali, […].
In questa indeterminatezza diffusa crescono fenomeni e comportamenti leggibili come il portato di un pervasiva sregolazione delle pulsioni, frutto della perdita di significato condiviso di molti dei riferimenti normativi che sono guida ai comportamenti.

(Censis 2011)

Se dal linguaggio tecnico della sociologia ci spostiamo verso la società, il tema è altrettanto sentito, ma la lingua utilizzata è diversa, è una lingua opaca, se mi si concede la metafora: si scrive “rispetto delle regole” ma si pronuncia “obbedienza”, e ciò si avverte fortemente anche in ambito educativo. Quando l’adulto lamenta l’incapacità di questo o quel bambino a “stare alle regole”, se richiesto di esplicitare quali regole il bambino trasgredisca, quasi sempre la risposta è: “non fa quello che gli dico”, lasciando intendere che in definitiva non c’è che una unica regola: obbedire. D’altronde la richiesta a cui egli dovrebbe obbedire è quasi sempre quella di “fare ciò che deve” nei vari contesti, di essere adeguato, insomma, capace di selezionare la condotta desiderata e di mantenerla.

Tutto ciò da un lato non fa che confermare quella perdita di significato condiviso di molti riferimenti normativi di cui parla il Censis, dall’altro però comprime ogni discorso pedagogico ed educativo in uno spazio decisamente troppo angusto, disperdendo le ceneri di millenni di riflessione sul contratto sociale, e prospettando come soluzione alla Bellum omnium contra omnes nulla più che una sorta di gerarchia che somiglia più al branco di lupi che ad una versione autoritaria del Leviatano. Stanchi di una autorevolezza vagheggiata ma non trovata, si è saliti sul cavallo dell’autorità, e talvolta, saltando troppo in alto, ci si ritrova addirittura sulla groppa della forza e della coercizione.  Anche sul versante del bambino va perduta ogni dimensione esplorativa di un soggetto produttore di senso, a favore di un bambino-robot dotato di una sorta di “intelligenza artificiale”, che dovrebbe metterlo in grado di apprendere (ed eseguire!) ciecamente tutto ciò che gli viene insegnato. 

“Obbedire agli ordini”, dopo il processo al nazista Eichmann, era divenuta una frase inquietante, e qualche anno dopo Don Milani scriveva “L’obbedienza non è più una virtù” (Milani 2004). Oggi, mezzo secolo dopo, l’obbedienza è stata estratta dalla soffitta in cui era stata relegata, e fa bella mostra di sé nei salotti buoni, ovvero in azienda, a scuola, nella pubblica amministrazione, ovunque. Purtroppo quindi è solo in questo angusto contesto che si colloca la  maggior parte dei discorsi istituzionali (e non solo) su regole, comportamento, competenze sociali e civiche, mentre dovremmo piuttosto rimarcare il nostro status di viventi intelligenti e parlanti, dotati di una mente incarnata nel corpo, adattata e modellata nell’interazione con altre menti, anche se questo, ora come ora, sembra esistere soltanto sul libro dei sogni. 

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Quali sono i presupposti neurobiologici delle diverse capacità umane di stare in comunità regolate da norme e da reciprocità? Abbiamo ormai la ragionevole certezza che la regolazione e la autoregolazione emotiva e comportamentale gettano le loro basi di sviluppo mentre il bambino fa esperienza di sintonia e di condivisione di attività e vissuti quotidiani con un adulto significativo. In questa reciproca funzione di regolazione emotiva egli apprende progressivamente a fare da sé un numero crescente di queste operazioni, che via via divengono sempre più articolate. 

Nei primissimi anni di vita le figure adulte coinvolte sono di norma i genitori, accanto a eventuali nonni e baby sitter. In questa prima stratificazione “i pattern di auto-organizzazione del genitore si manifestano nei pattern di autoregolazione del figlio”. (Siegel 2013). Il discorso si amplia ulteriormente con questa considerazione di C. Trevarthen: “ci sono dati che mostrano come nel bambino le funzioni regolative intrinseche della crescita del cervello siano adattate in modo specifico per essere accoppiate, attraverso comunicazioni emozionali, alle funzioni regolative di cervelli adulti più maturi, di persone che sanno di più.” (Cit. in Siegel 2013). Dunque i bambini necessitano dell’interazione con adulti significativi dai quali assorbono le funzioni regolative del sé, e sono finanche biologicamente predisposti a questo. 

Anche la capacità (o la cosiddetta capacità) di “stare alle regole” ha quindi le sue fondamenta dell’esperienza di una condivisione emotiva e cognitiva con adulti di riferimento; queste esperienze ripetute aprono la strada alla capacità del bambino di essere mentalmente presente a contesti e situazioni, di mantenere l’attenzione sugli aspetti più rilevanti, e di regolare il proprio comportamento. Se il bambino non ha fatto questa esperienza in quella finestra di tempo fondamentale che sono i primissimi anni di vita, ad esempio a causa di un inserimento al nido estremamente precoce e a orario iper-prolungato, può pur sempre recuperarla successivamente; in questo caso le aspettative di successo potrebbero non essere pari a quelle originarie, ma sono comunque degne di essere perseguite con impegno, senza trascurare il fatto essenziale che questo recupero avvenga all’interno di una condivisione e di un legame significativo, ancorché diverso da quello genitoriale, intrattenuto con le figure docenti. Senza questo legame la cosiddetta “educazione al rispetto delle regole” si limita a una mera richiesta verbale di rispettare norme e prescrizioni all’interno di un contesto strutturato e in definitiva astratto. Tutto ciò non sarebbe diverso dal cercare di imparare ad andare in bicicletta leggendone l’analisi su trattati di fisica o di ergonomia.

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L’insegnante può giocare un ruolo rilevante nella paziente costruzione di persone capaci di condotte adeguate e mature. Vediamo un piccolo esempio: un alunno di scuola primaria, irrequieto e annoiato, è colto dall’impulso di urlare una battuta spiritosa nel bel mezzo di una lezione. Se quel bambino è animato da una primitiva ottica del “mi importa di me”, la noia è la sua unica motivazione ed egli metterà in atto il suo impulso. La capacità di selezionare un comportamento più adeguato richiede invece la presenza di altre strutture motivazionali alimentate da un legame tra il bambino, la classe, la maestra e il contesto scuola complessivamente; allora accanto all’ottica “mi importa di me” c’è anche “mi importa di te”, “mi importa di me in relazione a te” e in definitiva “mi importa di noi e del luogo (fisico e sociale) in cui passiamo tante ore al giorno”. Questa risorsa motivazionale può giocare un ruolo importante nel far sì che l’alunno resista all’impulso di gridare e ridere ogniqualvolta ne ha voglia. 

In questo esempio si disvela la struttura di rappresentazioni affettive che sottostà ad ogni adesione del bambino ai desiderata della situazione: essa si esprime nel “mi importa di noi” integrando armonicamente “mi importa di me, mi importa di te, mi importa di te in relazione a me, mi importa di me in relazione a te…” Questa struttura motivazionale si sviluppa soltanto se c’è un legame tra il bambino e la maestra, poiché solo in tale caso nella mente del bambino acquistano senso domande come: “cosa penserebbe di me la maestra se gridassi ora?” È soltanto se c’è un legame, che per il bambino diviene rilevante il come viene pensato dalla maestra, poiché solo all’interno di un legame è possibile sentirsi (e pensarsi) pensati dall’altra persona. Se dunque il bambino percepisce che nella mente dell’adulto significativo ci sia un posto per lui, ciò lo aiuta a far suo il pensiero che “le importa di me, dunque mi importa di lei”.

Dunque il “rispetto delle regole” non è il presupposto ma il risultato di un buon lavoro pedagogico, fondato sulla creazione di legami (pensarsi nella mente dell’altro).

Se invece, di fronte a un comportamento disregolato del bambino, assistiamo a una simmetrica disregolazione del docente (che urla rimproveri e punisce), la costruzione del legame, come la tela di Penelope, viene continuamente distrutta.

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Ci sono domande che inquietano pressoché chiunque operi nella scuola: perché si assiste a crescenti difficoltà nella gestione dei comportamenti? Perché i bambini che entrano nella scuola anno dopo anno sembrano mostrare una sempre crescente sregolazione degli impulsi? Che cosa sta accadendo all’infanzia? Non vi sono ovviamente risposte semplici, ma quantomeno abbiamo compreso quale sia il processo che edifica le capacità autoregolative e sociali degli individui in formazione: tali capacità  si sviluppano e affinano mentre il bambino fa esperienza di sintonia e di condivisione di attività e vissuti quotidiani con un adulto significativo.

Stando così le cose, temo allora che si debbano cercare quelle risposte principalmente in una direzione, quella indicata dallo psicologo Niels Peter Rygaard quando ci fa notare l’elefante nel salotto di tutti noi, occidentali e non solo:

Noi abbiamo passato diversi milioni di anni ad affinare la relazione precoce madre-bambino… e appena 15 anni a distruggerla. A partire dalla 2° guerra mondiale, con un’accelerazione verso il 1960, abbiamo cominciato la più grande sperimentazione sociale intrapresa nel mondo occidentale: le madri di bambini in età prescolare e di bebè hanno cominciato a lavorare fuori casa. (…) Per un bambino, il modo di imparare a diventare uomo è stato completamente rivoluzionato. Oggi siamo probabilmente l’unica specie tra i mammiferi nella quale la madre e il suo piccolo non restano insieme, inseparabili, almeno due o tre anni dopo la nascita. Chiedete ai gorilla o alle balene, scuoterebbero la testa dalla meraviglia..

(Rygaard 2007)

I risultati di questa grande sperimentazione sociale, ormai stratificata su non meno di due generazioni, sono davanti ai nostri occhi. Consideriamo che

la mente umana è un processo incarnato e relazionale che regola i flussi di energia e informazione all’interno del cervello e fra cervelli diversi […e che] lo sviluppo delle strutture e delle funzioni cerebrali dipende dalle modalità con cui le esperienze, specialmente quelle legate alle relazioni interpersonali, influenzano i programmi di maturazione geneticamente determinati del sistema nervoso.

(Siegel 2013)

Sta diventando una dura ma semplice realtà: sui banchi di scuola siedono individui che non sempre hanno raggiunto uno sviluppo sociale, affettivo e relazionale atteso in base all’età, e che non sempre sanno propriamente stare in un legame né co-regolare i propri processi energetici ed emotivi. Questa capacità non è una competenza più di quanto non lo siano masticare, deglutire o sorridere. Non si apprende a masticare né a sorridere, semplicemente si abilita e si esercita una funzione della mente incarnata e relazionale. È su quella funzione che successivamente le competenze sociali e civiche specifiche di una società possono essere costruite. Per quanto collocati su di un superiore livello di astrattezza, i risultati di questa costruzione risentono di ogni anomalia delle funzioni su cui essa si fonda.

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Ogni docente d’oggi si relaziona ad alunni che non sempre hanno raggiunto uno sviluppo sociale, affettivo e relazionale atteso in base all’età, e che non sempre sanno propriamente stare in un legame né co-regolare i propri processi energetici ed emotivi. Di fronte a questo scenario occorre resistere alle tentazioni della rassegnazione, ma anche guardarsi delle facili ma fuorvianti scorciatoie, per dedicarsi allo sforzo paziente di costruire legami in ogni contesto scolastico (e non solo) consapevoli che solo per essi e con essi si possono promuovere relazioni e condotte regolate e costruttive, e che il “rispetto delle regole” non è il presupposto ma il risultato di un buon lavoro pedagogico in questo ambito.

Scendendo sul concreto, molti osserveranno che ogni bambino ha una propria personale gamma di stili e modalità con le quali si rapporta all’altro, in particolare al docente, e tale modalità contribuisce nel bene o nel male alla costruzione di un legame con l’insegnante stessa. Quando la capacità di stare all’interno di un legame è per qualunque ragione inibita o carente, vi sono due possibili esiti: il bambino non sta alle regole o viceversa è ritirato, passivo e poco reattivo. Le modalità con le quali egli entra nel legame con l’insegnante evocano risposte conseguenti nell’insegnante stessa, risposte che possono a loro volta essere disturbanti o compensatorie: nel primo caso contribuiscono ad acuire il problema, nel secondo possono ricostruire nel tempo una migliore capacità del bambino di stare nel legame. 

Un esempio di questo processo si verifica spesso nelle prime classi della scuola primaria, con bambini con uno stile ansioso che richiedono costantemente vicinanza della maestra e vivono male ogni allontanamento e ogni respingimento anche minimo. Dai primi studi di Bowlby via via fino a Sroufe troviamo conferme al fatto che uno stile prevalente di questo tipo evochi nella maestra comportamenti spontanei e viscerali che incrementano l’ansia del bambino. Se la maestra, filtrando le proprie risonanze interne, riconosce i bisogni di quel bambino e lavora alla sua rassicurazione piuttosto che a rinforzare la sua ansia di rifiuto,  gli trasmette l’idea che stia nascendo un legame con lei, e col tempo le richieste di attenzione e prossimità diverranno più moderate.

In ultima analisi l’unica chiave di volta che sorregge l’autorità o, se si preferisce, l’autorevolezza dell’adulto rispetto a bambini e adolescenti è il fatto che essi sentano di avere un posto nei suoi pensieri, ovvero la presenza di un legame. Allo stesso modo le competenze sociali e civiche sono il risultato di esperienze, assai più che di insegnamenti espliciti. E queste esperienze sono, ancora una volta, fondate su condivisione e legame.

Bibliografia essenziale

  • Bowlby, J., (20002) Attaccamento e perdita. Vol. 2: La separazione dalla madre, Bollati Boringhieri, Torino.
  • CENSIS, (2011), La crescente sregolazione delle pulsioni, 6/6/2011, reperibile on line al link: http://www.censis.it/7?shadow_comunicato_stampa=111887
  • Milani, L., (2004), L’obbedienza non è più una virtù. Documenti del processo di Don Milani, Libreria Editrice Fiorentina.
  • Rygaard, N. P., (2007), Il bambino abbandonato, Fioriti, Roma.
  • Siegel, D. J., (20132), La mente relazionale – Neurobiologia dell’esperienza interpersonale, Raffaello Cortina, Milano.
  • Sroufe, A., Siegel, D.J., (2011), The verdict is in: the case for attachment theory, in https://www2.psychotherapynetworker.org/magazine/recentissues/1271-the-verdict-is-in