Ignoranza, populismo, politica…

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L’analfabetismo è oggettivamente 

un instrumentum regni

(Tullio De Mauro)

Franco Nanni

Non riesco davvero a immaginare una società nella quale l’ignoranza e l’analfabetismo (di ogni genere: funzionale, strumentale, di ritorno…) non siano in qualche modo utilizzati come instrumentum regni. Tuttavia le forme storiche nelle quali ciò avviene non possono che andare soggette a mutamenti. Gli ultimi secoli di storia europea ci hanno abituato a considerare prevalente la forma nella quale le classi subordinate non sono in grado di decodificare il discorso politico, né il discorso amministrativo, e persino l’informazione giornalistica. Si tratta di una forma classicamente descritta dall’esempio di Don Milani sul numero di parole conosciute dai dominanti e dai dominati. Il potere quindi in questo caso si esercita facendo leva sul deficit di comprensione delle classi subordinate. 

Non dovremmo però dimenticarci un’altra forma altrettanto, se non più, pericolosa della prima. Una forma nella quale almeno il discorso politico si piega al linguaggio dei dominati e ne coglie non solo le forme ma i contenuti, le idiosincrasie, le paure, le ossessioni e la distruttività. Se era chiaro al contadino degli anni ‘50 che il problema consisteva nel suo non capire di cosa stesse parlando questo o quel politico, oggi ci sono ampi strati di popolazione che condivide quasi la stessa ignoranza con quel contadino, ma non la stessa sensazione di incomprensione: essi hanno invece la percezione di comprendere fin troppo bene i discorsi di una parte dei politici, che evidentemente in precedenza hanno sguinzagliato squadre di studiosi del linguaggio ben pagati e con pochi scrupoli per insegnare loro come parlare la lingua degli ultimi e a sobillare i loro impulsi più disorganizzati. 

Ogni forma storica di dominio tramite linguaggio porta con sé le sue forme di cura e rimedio che hanno l’ambizione di emancipare le classi dominate. La forma classica di questi rimedi è ben nota, e consiste naturalmente nell’ideale di una scuola pubblica capace di portare tutti, e proprio tutti, a una competenza linguistica tale da metterli in grado di esercitare meglio il loro potere all’interno dei conflitti sociali. È naturalmente l’ideale di scuola di Don Milani, di Calamandrei e di tutti coloro che hanno tracciato e praticato questo cammino. Quando i dominati avvertono fortemente i limiti che derivano dalle loro scarse conoscenze linguistiche si viene a creare un bisogno spontaneo che una scuola pubblica degna di questo nome in un paese sinceramente democratico potrebbe o almeno dovrebbe soddisfare in pieno. 

Le cose si complicano nella seconda forma storica di dominio che ho poc’anzi descritto. Quale cura, quale rimedio, quale emancipazione sognare per masse popolari che hanno l’impressione di capire molto bene la realtà e di saperlo fare con i loro magri, essenziali strumenti linguistici? Esse guardano ai loro padroni e dominatori non più con l’impulso di appropriarsi del loro sapere ma con il desiderio assai più elementare di distruggere coloro che “sanno” e di dare potere a coloro che non sanno, involontariamente citando l’Orwell che faceva dire al regime del Grande Fratello “l’ignoranza è forza”. 

È stato già detto (ma non sono in grado di citare la fonte) che l’odio di classe un tempo collocato tra chi non ha e chi ha oggi si trova tra chi non sa e chi sa. Ad esempio, i leader dei partiti storici della sinistra vengono spesso percepiti come dominatori dal linguaggio forbito e furbetto, in contatto con i leader più “veri” dei movimenti populisti. Ciò nonostante, gli ideali di don Milani e di Calamandrei non hanno perso nulla del loro fulgore ideale, a patto però che siano collocati in forme storiche del dominio non troppo difformi da quella nella quale sono nati. 

Cosa fare invece quando le classi dominate percepiscono di comprendere fin troppo bene la realtà e etichettano senza troppi distinguo come sproloqui da azzeccagarbugli qualunque discorso essi non capiscano? Qui tutte le nostre certezze della sinistra storica si tramutano in un balbettio imbarazzato. Assistiamo impotenti all’ingrossarsi delle fila di movimenti politici e dei consensi elettorali a personaggi pericolosi, distruttivi, razzisti e guerrafondai. A dispetto della ignara, crassa ignoranza dei loro elettori, per questi ultimi certi personaggi restano dei perfetti nemici di classe, ma chi li vota si accontenta di capire fin troppo bene cosa essi dicano, senza curarsi troppo di cosa essi facciano.

Occorre la modestia e l’onestà di ammettere che di fronte a questa nuova modalità di dominio linguistico siamo sprovvisti di strumenti e in definitiva impotenti. Questo non significa che alcuni ben noti presìdi abbiano perso di validità in assoluto. Basta guardare a quanto impegno venga profuso per privare di risorse la scuola pubblica per avere conferma che essa potrebbe ancora avere un ruolo nel creare contropotere. Tuttavia sarebbe importante anche individuare con maggiore attenzione gli strumenti pedagogici e i programmi in grado di assolvere questa funzione. Una scuola che pretende di allargare il lessico ciecamente e in un vuoto di conoscenze e di concetti, una scuola che pretende di fare usare a bambini di 7, 8 anni linguaggi tecnici delle scienze adulte è una scuola che non fa che ingrossare sempre più il fiume dell’analfabetismo di ritorno scavando una fossa sempre più profonda di odio e di sospetto tra chi non sa e chi sa. Una scuola che vuole proporre un modello sostanzialmente liceale ai programmi e ai contenuti proposti in qualsiasi scuola superiore, nell’ingenuo tentativo di appiccicare una cultura “alta” in contesti contraddistinti da un forte degrado culturale, è una scuola che ha già perso la sfida di creare contropotere. Non si guarisce dall’anemia mangiando chiodi. Non si diventa più competenti né più colti perché si conoscono più parole, ma semmai perché le si usa, poiché dopo Wittgenstein sappiamo che “il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio”. È davvero preoccupante notare, osservando i libri di testo scolastici, che agli alunni di oggi si chiede di memorizzare una gran mole di termini che essi non usano e non useranno mai poiché li hanno appresi in modo decontestualizzato e mnemonico. Va da sé che non considero uso l’utilizzo di una parola al fine di rispondere a qualche domanda a risposte multiple o a una interrogazione. 

Se spostiamo l’attenzione sulla politica il panorama è ancora più sconsolante. Le parole della politica che vince fanno parte ormai di un lessico deforme, limitato e povero. Dall’altro lato della barricata forze supposte, sedicenti, presunte o anticamente di sinistra continuano a praticare politiche di destra o viceversa a dividersi su nominalismi, personalismi e schieramenti senza modificare in nulla quello stesso linguaggio “alto” che ha sancito la loro perdita di egemonia e la loro sconfitta storica. Grande assente, almeno in Italia, una ricerca autenticamente originale sulle parole, i bisogni, gli aggregati di concetti idonei a incontrare un consenso potenzialmente vasto che riguarda ancora chi non ha, ma soprattutto chi non ha prospettive, chi non ha potere contrattuale e decisionale, chi, in altri termini, si trova contrapposto molto più facilmente in una dialettica alto/basso assai più che in una dialettica destra/sinistra, come correttamente hanno argomentato i politologi fondatori del movimento spagnolo Podemos. Si fa un gran parlare dell’avanzare dei populismi e della necessità di contrastarli, ma nel perseguire questo obiettivo non si fa che rinforzare gli strumenti che a quei populismi hanno portato ampio nutrimento. Oltre all’onestà di ammettere che c’è tantissimo da fare e che le nostre capacità e conoscenze sono balbettii di bambino, se paragonati alla potenza di fuoco di imbonitori professionisti e senza scrupoli, dobbiamo avere altrettanto rigore nel riconoscere le strade senza uscita e gli strumenti non più adeguati ed evitare di insistere su di essi.