La scuola è in sofferenza acuta per ragioni in parte storiche e in parte contingenti (COVID). Di fronte allo stucchevole spettacolo delle prove Invalsi, da somministrarsi nonostante tutto, è forse il caso di ricordare alcuni concetti. Che cosa misurano le prove Invalsi? Basta fare una breve ricerca sui motori web per accorgersi della pletora di pubblicazioni, archivi e quaderni di esercitazioni per superare con successo le prove. Credo che la formulazione più onesta sia la seguente:
le prove Invalsi misurano la capacità degli alunni di superare le prove Invalsi. Indirettamente misurano la quantità di ore spese da determinati docenti per farli esercitare sulle prove.
Qualunque persona con una media preparazione in metodologia psicometrica può capire al volo che in un siffatto sistema di valutazione mancano i parametri minimi di qualunque rigore. Non sono chiari i costrutti, non sono chiari i modi nei quali le prove dovrebbero rappresentare costrutti peraltro indefiniti, non sono chiari i parametri che dovrebbero equiparare le prove di un anno quello successivo dal momento che i materiali sono diversi.
Che cosa misura il risultato di un atleta nel salto in lungo? La sua potenza muscolare? La bravura del suo allenatore? La genetica che gli ha fatto muscoli con quelle caratteristiche? No! Il salto in lungo misura quanto dista il punto da cui l’atleta spicca il salto da quello più vicino in cui il suo corpo ha toccato terra. Per essere più precisi: dalla linea bianca a dove tocca. Perché se spicca il salto da più indietro non ci interessa, noi misuriamo da lì a lì. Se hai degli svantaggi tuoi la cosa non ci riguarda: noi misuriamo da lì a lì.
Naturalmente la muscolatura, il bravo allenatore, la genetica, l’alimentazione e quant’altro sono in qualche modo ingredienti del risultato dell’atleta, ma rimane il fatto che la misura del suo salto è semplicemente una cifra che rappresenta metri e centimetri, e niente di più.
Ciò che si vuol far dire alle prove Invalsi è tutto e il contrario di tutto: la qualità di un sistema scolastico, il buon lavoro degli insegnanti, la capacità della scuola di creare valore aggiunto (pessima espressione di matrice economicista) a situazioni di partenza più o meno critiche, anch’esse “misurate” con variabili assai vaghe.
Con queste premesse risulta naturalmente scomodo e un po’ sconcio per chicchessia opporsi alle prove Invalsi come se si stesse opponendo all’onestà e alla buona fede, come se chi si oppone alle prove Invalsi fosse una sorta di “evasore fiscale della bontà del sistema scolastico”. Invece non è nulla di tutto questo.
È più serio non misurare affatto un parametro, poiché non se ne hanno gli strumenti, o fingere di misurarlo con pretestuosi insiemi di prove che non significano nulla?
Se il sistema è malato di ansia valutativa, si può sempre ricorrere a un placebo, ed è esattamente questo che il sistema Invalsi rappresenta per molti: un placebo che calma l’ansia di valutazione.
Certo, ci potrebbe essere una terza via, ed è quella di un faticoso lavoro di costruzione di un sistema di valutazione che garantisca una qualità di base del lavoro degli insegnanti sotto diverse dimensioni tutte operative e procedurali. Una misura delicata, complessa e multifattoriale, che non garantisce mai, e sottolineo: mai un risultato certificabile, ma che assicura il rispetto di buone prassi pedagogicamente riconosciute e validate. Ma per realizzare questo occorre tempo, energia, denaro… mentre il placebo è soltanto una compressa di farina.