La tribalità vuota

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Uno spettacolo fra il rap, il trap e… il trash che ho “dovuto” ascoltare forzosamente causa volumi altissimi, mi ha dato l’occasione di osservare allo stato puro un fenomeno che si ripropone spesso, ancorché in forme meno evidenti.

Una voce maschile gridata, gutturale e sovraccarica aizza gli astanti ritmicamente, e quelli rispondono con grida corali scomposte ma molto forti e altrettanto sovraccariche. Se ascolto i toni, mi raffiguro uno scimmione capo deciso, ispirato e determinato che prepara un plotone pronto a tutto. È una alternanza tra un uomo solo e il coro, una forma responsoriale, che gli antropologi della musica riconoscono come forma archetipica che unisce musica, danza, sacro, ritualità e relazioni sociali (ricordo in particolare l’apporto di J. Blacking).

“Tribalità”, si potrebbe dire, nulla di nuovo, anzi, assai antico! Ma una differenza sostanziale c’è: queste ritualità ancestrali nella storia umana compaiono in occasioni di grande importanza per la collettività, momenti fondativi, di sacralità, oppure anche di lotta per la sopravvivenza, e ciò fornisce sostanza e funzione a quei toni alti, affermativi, e a quel gruppo di fedeli e/o guerrieri pronti a tutto. Il novecento, nella sua prima metà, ci ha fornito lugubri esempi con le dittature del tempo.

Anche i toni dello spettacolo (t)rap/trash davano la stessa impressione e la stessa adrenalina, ma lì nessuno era “pronto a tutto”: l’artista era pronto ad andarsene in albergo, arricchito del cachet della serata, e il pubblico ad andarsene a letto, poi in spiaggia tardi l’indomani, passata l’emicrania, dormendo sul lettino. Nella storia umana non si sono usate, finora almeno, forme simili per sfangare una sera o per rimorchiare, ed ecco quindi la differenza: è tribalità, sì, ma una tribalità vuota, senza contenuti. Una tribalità di mercato, una lotta per la sopravvivenza… alla noia.