Recenti fatti di cronaca ci riportano l’attenzione e lo sguardo su uno spostamento culturale che, sottotraccia, avanza in realtà da molti anni. Per astenerci da sottigliezze semantiche e accademiche, il fenomeno stai in una sola parola di quattro lettere: odio.
Non è di poco conto che gli ultimi due episodi siano opera di ragazzine tra i 12 e i 14 anni. Perfino il monopolio maschile della violenza sembra incrinato da episodi estremamente gravi perpetrati non solo da femmine ma da giovanissime ancora in età puberale. Per quanto ancora da inquadrare statisticamente, il fenomeno della violenza compiuta da soggetti sotto i 14 anni appare in aumento.
Il mondo adulto balbetta di fronte a questa realtà. Ci balocchiamo ancora con i buoni, saggi consigli della Polizia Postale per proteggere i minori dal visitare siti con contenuti inadatti, dimenticando che i minori sono già andati molto oltre: sono i minori stessi a produrre contenuti a dir poco inquietanti. Incriminare il web e i social network anche di questi delitti mi pare una visione troppo parziale.
L’odio prolifera nei social ma affonda le radici nelle persone, nei loro corpi e nei loro sistemi nervosi.
L’odio è diventato una realtà.
Ben consapevole di avventurarmi in un terreno minato mi prendo la libertà di tracciare una mappa del bacino di coltura di questo fenomeno.
Schiere di bambini fin dai pochi mesi di età sono deprivati di relazioni significative e continuative con adulti di riferimento: a parte serate trascorse con genitori stanchi e distratti, trascorrono larga parte del loro tempo in strutture educative di gruppo, nidi e scuole dell’infanzia, ottime per qualche ora al giorno, ma che non dovrebbero occupare l’80% del tempo di veglia di un bambino. Non mancano appelli di esperti e ricerche che segnalano un aumento di problemi di linguaggio, di aggressività e di disregolazione emotiva in bambini troppo istituzionalizzati e troppo precocemente.
Se non si compie del tutto una buona maturazione relazionale, l’altro rimane un oggetto, un ostacolo, talvolta una minaccia.
Un aspetto collegato alla deprivazione relazionale è naturalmente costituito dall’abuso precoce di dispositivi elettronici. Oltre ad effetti non specifici e generali, non dobbiamo trascurare la grande quantità di giovani che trascorrono diverse ore al giorno su giochi definiti con nonchalance sparatutto, come se fosse normale che un piccolo di uomo passi ore al giorno davanti a uno schermo uccidendo persone con armi da fuoco, investendole con l’auto o facendole a pezzi. E pur tuttavia gli appelli a un controllo e a una moratoria nella diffusione dei videogiochi violenti cadono sistematicamente nel vuoto, o, per meglio dire, nel fiume di denaro incassato dai loro inventori.
Viviamo nell’era dell’apparenza e dei like, un tempo in cui la disputa di rango attraverso l’attenzione ricevuta dai propri simili è diventata ossessiva e senza esclusione di colpi. Come valutare altrimenti quei giovani che pur di scattarsi un selfie da migliaia di like rischiano la vita sotto un treno o al margine di una strada?
Il ruolo della scuola: dopo i primi anni trascorsi a contendersi l’attenzione di (troppo poche) maestre ed educatrici, gli studenti crescono e troppo spesso sono visti e valutati solo in base alla loro capacità di produrre comportamenti acquiescenti nonché performance accuratamente misurate. A parte meritevoli ma episodici risvegli, è una minoranza di docenti veramente capaci anche di relazione, la scuola ostenta una olimpica indifferenza per la dimensione umana degli alunni
Infine: l’esempio degli adulti. L’odio ormai scorre a fiumi anche nel mondo adulto così come la tracotanza e la prepotenza, in TV come sui social. Non si discute, non si dialoga, non ci si confronta: si sparano parole sull’altro come a volerlo eliminare.
Un ottimo terreno per tutti questi fenomeni è costituito da un modello economico che produce diseguaglianze, esclusione e precarietà.
Che dire? Io credo che sia molto, molto tardi per qualsivoglia intervento, ma se si vuole tentare si dovrebbe iniziare da questi punti.