Mindfulness & ACT – per capire

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Per iniziare a farsi una idea di cosa significhi “Mindfulness” inizio col dare la parola a Marco Tosi, didatta e trainer IAM (Istituto per le Applicazioni della Mindfulness, Milano), tratta da un articolo più ampio sul tema:

Il termine “Mindfulness” si riferisce ad un’attenzione consapevole, intenzionale e non giudicante verso la propria esperienza, nel momento in cui essa viene vissuta. Accettare l’esperienza che avviene proprio in un determinato momento, avere un atteggiamento compassionevole verso la sofferenza, propria e altrui, avere una capacità di auto osservazione non giudicante sono caratteristiche Mindfulness. La pratica della Mindfulness si propone di aiutare a sostituire nella vita quotidiana i comportamenti reattivi, automatici e distruttivi con scelte consapevoli e funzionali. La Mindfulness consente di apprendere a riconoscere le nostre emozioni e i nostri pensieri, accogliendoli così come sono, sospendendo ogni giudizio con un atteggiamento di accettazione.

Tosi ci aiuta anche a capire cosa non è: Non è una terapia, sebbene sia in grado di curare. Non è una tecnica di rilassamento, nonostante provoca il rilassamento. La Mindfulness, al contrario, ci tiene ben svegli e attenti a “quello che c’è”. Non implica una condizione mistica, perché non vuole suscitare nulla né giungere ad un obbiettivo, ma semplicemente rappresenta un invito a essere presenti nel presente. Non fa parte di una religione, anche se molte religioni utilizzano tecniche di meditazione.

La Mindfulness quindi non è una terapia in sé, ma è un efficace complemento ad altre terapie, testata sperimentalmente. Una tabella riassume le situazioni cliniche per cui esistono in letteratura studi di efficacia (adattato graficamente da Santorelli & Kabat-Zinn, 2013).

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La mindfulness quindi non dovrebbe essere presentata come una pratica per produrre felicità e/o benessere, e ancora meno come un antidoto efficace e pronto all’uso contro qualunque forma di infelicità (incluso il versante medicalizzato come la depressione), e ciò per vari motivi: prima di tutto per rispettare le affermazioni dei suoi fondatori e lo spirito con il quale hanno inteso il loro lavoro. Poi perché ci manca completamente una definizione univoca di felicità che sia credibile.  Infine perché qualunque statuto vogliamo dare a felicità e infelicità, queste condizioni sono necessariamente il risultato di processi sociali, culturali, interpersonali, linguistici, economici e organizzativi che nessuna pratica individuale svolta sul tappetino da yoga o qualunque altro supporto potrà mai surrogare nemmeno lontanamente. A ben guardare in realtà sia le antiche filosofie che le neuroscienze convergono, da direzioni abissalmente diverse, verso un unico punto di arrivo: la felicità, perfino se la intendiamo nelle sue accezioni organiche in termini di neurotrasmettitori e onde cerebrali, nasce da processi intimamente umani come il legame sociale, l’attaccamento, l’amore, la sessualità, il dialogo, il riconoscimento reciproco (solo per citarne alcune, alla rinfusa, ma indubbiamente tra le più importanti). Si tratta comunque di processi e non di “ricette” di qualunque tipo.

Una buona pratica di Mindfulness, semmai, ci mette in grado di affrontare saggiamente  quella quota di “male” che appartiene alla condizione umana: i nostri limiti, le malattie, la morte, la perdita, il non raggiungere ciò che desideriamo, il sopportare ciò che non amiamo o non ci piace. Ci mette in grado di rispondere con intelligenza  a queste e ad altre sfide della vita, anzichè reagire impulsivamente in modo automatico. È essenzialmente questo che abbassa il livello di stress: modificare i processi mentali reattivi e avversivi  arricchendo il proprio quoziente di flessibilità psichica.

In quanti e quali modi allora può essere usata la parola Mindfulness per indicare cosa? Non pretendo certo di essere esaustivo, ma spero di fare almeno chiarezza in modo semplice:

  • nasce, grazie al medico USA J. Kabat-Zinn, a partire dal 1979 all’Università della Massachusetts Medical School, come pratica per la riduzione dello stress in molteplici ambiti, oggi diffusi nella forma del protocollo MBSR (Mindfulness-Based Stress Reduction)
  • Grazie ai numerosissimi studi svolti in più di tre decenni, la Mindfulness si arricchisce anche su un piano più teorico, con una visione progressivamente più organica del funzionamento della mente umana, della sofferenza e delle sue cause, nonché di come gestirla in modo efficace.
  • Gradualmente i concetti e alcune delle pratiche della Mindfulness sono penetrati nella terapia psicologica, generando più in specifico la MBCT (Mindfulness-Based Cognitive Therapy), la DBT (Dialectical Behaviour Therapy) e la ACT (Acceptance and Commitment Therapy)

La ACT (pronunciata non come acronimo, ma come il verbo inglese (to) act (agire), è una terapia basata non solo sulla mindfulness, ma sul felice incontro con la Contextual psychology e la Relational Frame Theory. Per approfondire cosa sia ACT, questo link punta a un ottimo e chiaro articolo di Pietro Spagnulo, pioniere della ACT in Italia. In esso, tra l’altro, Spagnulo scrive:

“Come lascia correttamente supporre il nome, l’Acceptance and Commitment Therapy si basa su due pilastri fondamentali: accettazione (acceptance) cioè apprendere ad accogliere, osservare la realtà interna invece di negarla, evitarla o respingerla, e impegno (commitment) cioè agire nel mondo reale in linea con i propri valori ed obiettivi personali, invece di perdersi nell’inazione, in comportamenti impulsivi o nell’evitamento.  L’ACT utilizza l’analisi funzionale, la mindfulness e fa massiccio ricorso a tecniche dette di defusione.” (leggi tutto l’articolo di Pietro Spagnulo)

Qui voglio sottolineare soprattutto un punto che mi sta a cuore: l’ACT delinea con molta chiarezza l’origine non solo personale, ma anche sociale e culturale (per tramite delle reti relazionali linguistiche) di molte sofferenze umane che la stessa ACT resiste a medicalizzare come patologie tout court. In ogni testo che si rispetti basato su questo approccio si insiste molto proprio sul ruolo patogeno della pressione (personale ma anche socialmente sollecitata) a evitare le emozioni negative (il cosiddetto Evitamento Esperienziale) nonché a viverle a seconda dei casi come colpa, come difetto o come natura essenziale del proprio sé. Ecco perché ACT mette al centro dei suoi processi la “defusione”, un termine complesso che si riferisce essenzialmente a una serie di capacità di non identificarsi coi propri contenuti mentali.

Se si legge attentamente la struttura essenziale di ACT essa appare come la più straordinaria radicale e lucida critica distruttiva di ogni forma di “pensiero positivo” e di perseguimento del benessere e/o della felicità. E questo non certo perché ACT non miri a recare vero sollievo, tutt’altro! Solo che la via del “pensiero positivo” conferma implicitamente un principio che crea più problemi di quanti non ne risolva:  si spingono le persone a temere i propri pensieri quando non sono adeguati, ossia positivi, costruttivi, ecc.  E a ritenere che  i pensieri negativi siano temibili e quindi da evitarsi, sopprimere, scacciare. Questo è esattamente uno dei componenti base dell’Evitamento Esperienziale, considerato un fattore chiave in numerosissimi processi patogeni nei fenomeni di ansia  e di depressione.

A scanso di equivoci, la ACT  non “parteggia” per i pensieri negativi, ci mancherebbe altro, ma semplicemente considera (assieme alla Mindfulness)  l’evitamento di eventi interni (pensieri, emozioni, ecc.) come una parte del problema e non della soluzione, rispetto alla sofferenza umana.
by-nc-saQuest’opera di Franco Nanni è stata rilasciata con licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Condividi allo stesso modo 3.0 Italia.

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