Star bene con la mente 2

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Quello che raccontiamo di noi corrisponde davvero a ciò che noi siamo? Una persona, vivente, pensante, senziente, può essere “espressa” in un racconto? La stessa domanda si può porre, ancora più urgente, per quello che raccontiamo a noi stessi a proposito di… Noi stessi. Dobbiamo credere a noi stessi, quando ci raccontiamo di essere questo o quello? A tutte queste domande la risposta è sempre : NO.
patogeneralForse ogni giorno c’è qualcuno che dice qualcosa di sé come “io sono pigro”, per fare un esempio banale. A smontare tutto può bastare talvolta una semplice richiesta: “mi puoi raccontare qualche esempio concreto in cui sei stato pigro?” La maggior parte delle persone con propria sorpresa non trova episodi che sostengano i propri racconti su di sé, oppure ne trova qualcuno, ma mescolato ad altri in cui si sono dimostrate (ad esempio) dinamiche e scattanti, o comunque diverse da “pigro”. Eppure non possiamo fare a meno di raccontare cose su noi stessi. Siamo animali narrativi. Ma vivremmo più pienamente se dessimo più spazio e importanza a quella parte di noi che non racconta nulla, ma che sente, fa esperienza, osserva e vive. E fa tutto ciò nel momento presente. È la nostra parte più viva, non dimentichiamolo.

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C’è una caratteristica comune pressoché a tutte le persone in stato di sofferenza o di malessere psichico: un cattivo rapporto con sé stessi, o, detto diversamente, l’essere in guerra contro qualche parte o aspetto di sé. Spesso suona come “mi odio quando faccio così” oppure “non sopporto la mia…. (insicurezza, timidezza, pigrizia, ecc.)”. La seconda frase è innescata spesso proprio dalla abitudine a raccontare qualcosa di sé in modo etichettante del tipo “io sono pigro” “io sono insicuro” “io non ho autostima” e così via. Alle volte questa guerra assolve anche funzioni diverse utili o costruttive ma, trattandosi di una guerra, i costi sono molto alti in termini di malessere, di affaticamento e di stress.
È chiaro quindi che davvero nasce guerra e nonostante scopi iniziali nobili il risultato è sempre negativo. Si può evitare questa guerra? Si può essere benevolenti verso gli aspetti di sé che appaiono meno graditi? Si può accettarne la presenza senza mobilitare eserciti per cacciare gli “intrusi”? Una buona pratica di consapevolezza può portare a una maggiore capacità di dirsi: “così è la mente…”, ovvero di “fare spazio” dentro di sé alle manifestazioni mentali che ci piacciono meno; la tentazione di tutti è invece quella di stringere la mente per cacciare via le cose che apprezziamo, ma non funziona. Se un tram è sempre troppo pieno di gente, non è certo sostituendolo con uno più piccolo che la calca diminuirà, ma solo allargando lo spazio, ad esempio aggiungendo un vagone in più. Allora tutti saranno meno disturbati dal grande numero di passeggeri.
Allargando lo spazio mentale anche i pensieri scomodi… Staranno più comodi e saranno meno fastidiosi. Si comincia dicendosi qualcosa come “la mia mente è fatta così”.
Già gli antichi indiani avevano colto questo aspetto, che riporto parafrasando un poco il finale del Mahasatipatthanasuttanta:
«“Così è la mente”, e questa consapevolezza è di fondamento, è base di sapere, è base di più alta consapevolezza. Ed egli vive libero e nulla brama nel mondo.»

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