Voglio ripubblicare un mio scritto del 2010, un ricordo di Bruno Asioli, che fu il mio maestro elementare dal 1965 al 1970 a Forlì. Vi apparirà in filigrana gran parte di ciò che ora la prosa neoromantica della pedagogia ufficiale ci prospetta come “il nuovo”, ma che nuovo non è, se una persona di grande intelligenza, semplicità e sensibilità lavorava in quel modo sessant’anni fa. Ci sono i compiti di realtà, la maieutica, la gioia, l’osservazione naturalistica, il learning by doing, perfino un poco di flipped classroom e, udite, un inedito flipped film. Va sottolineato che nelle aule accanto alla mia si muoveva un corpo docente che pareva uscito dal libro Cuore e che usava metodi sideralmente diversi da quelli del mio maestro. Già, perché una scuola valida è possibile, si può fare sempre, ovunque, senza paroloni, senza amorosi affetti, senza trucchi nominalistici, e perfino senza tecnologie e robottini.
Buona lettura.
L’odore della candeggina sulle mani è il primo ricordo del mio maestro elementare. Perché lui riparava da sé la sua vecchia auto, cercando poi di sbiancarsi le mani annerite dall’olio. Apparivano mani di meccanico, le sue, anche se da giovane aveva amato e suonato il violino.
All’inizio della prima ci invitò a tracciare scarabocchi su fogli di carta vergatina grigiastra che teneva in un armadietto. A chi tentava di creare forme precise e regolari diceva di preoccuparsi, piuttosto, di avere un bel gesto, libero, ampio, spontaneo. C’era una specie di gioia in quell’invito. Era l’inizio di ottobre del 1965.

Schizzare un ricordo del mio maestro, di quei cinque anni così lontani mi sembra un problema impossibile. “Un grande problema si risolve dividendolo in tanti piccoli problemi”, così ci ripeteva sempre. Un giorno ci assegnò il compito di far acquistare dai genitori alcuni pesi da bilancia, dieci grammi, cinque, due e un grammo. Li conservo ancora. Ricordo anche un altro acquisto che ci sollecitò: una cartina dell’Italia. Tempo dopo qualcuno domandò: “Maestro, quand’è che adoperiamo la carta geografica?” Lui, con un sorriso solare: “Non serve a noi qui, servirà a voi a casa, quando vorrete sapere dov’è una città o un luogo.” Forse basterebbe questo a descrivere che idea avesse della scuola, ed era che la scuola era parte della vita. Era parte del mondo. E il mondo eravamo noi.
Il mondo si poteva toccare. I piccoli pesi furono la sua lezione sulle unità di misura, assieme all’acquisto di un metro di legno, di quelli gialli che si ripiegano in stecche da dieci centimetri. Il mondo è tuo. Conoscilo. Toccalo. Ci portò dei girini dentro un vaso di vetro. Li tenemmo in classe a lungo; non tutti sopravvissero, ma una mattina trovammo l’ultimo superstite che saltellava sulla cattedra, era un bel rospetto nero. Lo portammo subito in giardino dove avrebbe potuto continuare a vivere. Un giorno anche noi saremmo usciti da lì e saremmo andati a vivere.
Durante una lezione un bambino disse “Maestro, la mia cartella non si chiude più, la fibbia non tiene.” Il maestro si interruppe immediatamente, si fece consegnare la cartella rotta e un’altra funzionante, poi ci mostrò la linguetta guasta confrontandola con l’altra che ancora scattava. Ci chiese di immaginare che cosa la spingesse allo scatto. Dopo diversi tentativi la risposta arrivò: una molla. “Certo, sì, e allora? Cosa potremmo fare? Potremmo sostituire la molla e la cartella si potrebbe ancora utilizzare”. Questa attenzione zen al momento presente, al tutto contenuto nell’istante, questo era l’alfa e l’omega della sua incrollabile fiducia nell’intelletto umano.
Di tanto in tanto ci portava nel salone seminterrato per vedere un film. In quegli anni si dovevano noleggiare pellicole in sedici millimetri nelle loro grandi scatole di latta e proiettarle con una vecchia macchina da cinema. Un giorno il maestro incontrò molte difficoltà nella proiezione, e dopo molti sforzi tutto quel che riuscì a fare fu di proiettare il film capovolto. Noi eravamo perplessi e scoraggiati. Lui, solare e sorridente come sempre, lasciò andare avanti la proiezione affermando che così era ancora meglio: era una occasione fortunata per esercitarci a capire comunque le immagini e la trama, nonostante fosse tutto capovolto. Fu quella, forse, la sua più bella lezione.
Da “I maestri del dolore, Pendragon 2011